Quando, circa venti anni
fa, proposi alla professoressa Maria Gabriella Esposito, docente di Filosofia
del Diritto all’Università degli Studi di Teramo, una tesi sulla tutela
giuridica degli animali, la stessa si mostrò interessata a questa tematica e mi
assegnò il seguente titolo: “Il diritto degli animali”.
Quel titolo, all’epoca,
non mi piaceva tanto. Mi sembrava poco preciso dal punto di vista giuridico, in
quanto pensavo che non fosse corretto parlare di “diritto degli animali”, non ritenendo
questi ultimi soggetti di diritto. All’epoca il punto di arrivo delle
riflessioni sul rapporto uomo-altri animali mi sembrava ben condensato nei
precetti della cosiddetta “etica della responsabilità”, secondo cui il nostro
compito deve essere quello di prenderci cura degli animali, essendo questi
ultimi capaci di sofferenza, benché privi di soggettività giuridica. Sul piano
giuridico, tali posizioni possono ritenersi chiaramente esposte nella relazione
presentata dal primo presidente della Corte di Cassazione Ernesto Eula al
convegno organizzato nel 1961 dal titolo Gli
italiani e la natura, in cui il predetto magistrato parlò di “una somma di
doveri per gli uomini” nei confronti degli animali. Questi ultimi, pur privi di
soggettività giuridica, non potevano essere visti come semplici cose e pertanto
si doveva riconoscere loro “un diritto di rispetto, di umana comprensione, di
moderazione negli usi”[1].
Come noto, un grande
impulso ad una radicale revisione del modo di vedere il rapporto uomo-animali è
stato dato dalle teorie, elaborate a partire dagli anni 70 del secolo scorso,
da Peter Singer e Tom Regan, che hanno definitivamente messo da parte
l’approccio di tipo caritatevole tipico delle originarie, primordiali battaglie
per migliorare, già agli inizi del ‘900, le condizioni di vita degli animali.
Peter Singer è un filosofo australiano, autore del celebre testo “Liberazione
animale”, che fa leva sulla capacità degli animali di soffrire per farne
discendere il nostro dovere di sottrarli da ogni forma di inflizione del dolore[2]. Tom Regan è un filosofo
statunitense, che ha concentrato la sua attenzione sul fatto che ogni animale
non solo può provare dolore, ma è “soggetto di una vita”, la quale ha valore di
per sé[3],
e su questo approccio di tipo giusnaturalista ha fondato la sua etica di
rispetto per tutti gli animali “al di là di qualsiasi discriminazione”[4].
Nel libro “I diritti animali”, Regan fornisce una
definizione dei “soggetti di una vita”: «Gli individui sono soggetti-di-una-vita se
hanno credenze e desideri, percezione, memoria, senso del futuro, una vita
emozionale, nonché sentimenti di piacere e dolore, interessi-preferenze e
interessi-benessere, capacità di dare inizio all'azione in vista della
gratificazione dei propri desideri e del conseguimento dei propri obiettivi,
identità psicofisica nel tempo, e benessere individuale nel senso che la loro
esperienza di vita è per loro positiva o negativa in termini indipendenti dalle
loro utilità per altri e dal loro essere oggetto di interesse per chiunque
altro».
Entrambi questi
pensatori, dunque, per estendere agli animali la considerazione morale, hanno
fatto appello a caratteristiche che appartengono all'essere umano, e per questo
si sono esposti a critiche di velato antropocentrismo, recentemente formulate
dagli esponenti del cosiddetto antispecismo di seconda generazione, movimento
culturale che si propone di scardinare dalle fondamenta la separazione sempre
in qualche modo postulata tra l'essere umano e gli altri animali[5].
Personalmente credo che il
problema di fondo della tendenza a considerare l’uomo al centro di ogni tipo di
interesse sia dovuto al fatto che a tutt’oggi non abbiamo ancora metabolizzato
la profonda rivoluzione culturale che ci è stata consegnata dalle intuizioni,
tutte confermate, di Charles Darwin. Ancora oggi, invero, non abbiamo ben
chiare le implicazioni della nostra appartenenza al regno animale.
La conferma più lampante
di quanto sto affermando la si rinviene nel continuo (e giustificabile)
riferimento che gli stessi animalisti fanno alla qualità di “esseri senzienti”
posseduta dagli animali, ora sancita anche dal Trattato di Lisbona, il quale
impone agli Stati membri dell’Unione Europea di tenere conto di questa
caratteristica degli animali (quella, per l’appunto, di provare sensazioni)
quando vengono adottate leggi che in qualche modo li riguardano. La domanda che
mi viene spontanea è la seguente: ma davvero siamo ancora a questo punto?
Davvero, ancora oggi, nell’anno di grazia 2019, dobbiamo ricordare a noi stessi
che gli animali sono “esseri senzienti”? Ma già Bentham nel lontano 1789 diceva
che «la domanda non è: “possono ragionare?” né “possono parlare?” ma “possono
soffrire?”»[6].
E dunque, ripeto: siamo ancora a questo punto? Dov’è quel meccanismo inceppato
nel ragionamento sui diritti degli animali che ci costringe a ricercare un
appiglio (l’essere l’animale “senziente”, ovvero “soggetto-di-una-vita”) per
concedere agli animali una tutela giuridica?
La risposta a queste domande,
come spesso accade, è talmente banale da essere al contempo anche sfuggevole.
Il fatto è che quando pensiamo agli animali, facciamo fatica a ricomprendere
gli umani in questa categoria, e questo atteggiamento mentale non riguarda solo
la maggioranza delle persone che non sono appassionate alle tematiche
animaliste, ma gli stessi difensori dei diritti degli animali.
Faccio un esempio che
spero sia da solo sufficiente a chiarire il concetto che sto cercando di
esporre. Come noto, il
15 ottobre 1978 presso la sede dell'UNESCO a Parigi è stata sottoscritta da
diverse associazioni animaliste la Dichiarazione universale dei diritti
dell'animale. In realtà, leggendo il testo, ci si accorge agevolmente che esso,
più che sancire i “diritti dell’animale”, si propone di dare indicazioni
finalizzate a indurre gli uomini ad un comportamento di rispetto verso
l'ambiente e gli animali, ma è assolutamente netta la separazione tra l’uomo e
gli altri animali. All’articolo 2 si legge: “Ogni animale ha diritto alla considerazione,
alle cure e alla protezione dell’uomo”; all’articolo 3 si legge: “Se la
soppressione di un animale è necessaria, deve essere istantanea, senza dolore,
né angoscia”; all’art. 9 si legge: “Nel caso che l’animale sia allevato per
l’alimentazione, deve essere nutrito, alloggiato, trasportato e ucciso senza
che per lui ne risulti ansietà e dolore”; all’art. 10 si legge: “Nessun animale
deve essere usato per il divertimento dell’uomo”. E’ talmente evidente che il
termine “animali” sta ad indicare gli animali diversi dall’uomo che in questo
senso deve essere interpretato certamente anche il primo articolo della
dichiarazione, e cioè quello che recita: “Tutti gli
animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti
all’esistenza”. Nessuno avrà mai messo in dubbio che la preoccupazione
delle associazioni firmatarie del documento era, per l’appunto, quello di
affermare il diritto alla vita per gli animali diversi dall’uomo. D’altro
canto, i diritti umani erano già stati sanciti trent’anni prima con la
Dichiarazione adottata, sempre a Parigi, dall'Assemblea generale delle Nazioni
Unite, il cui primo articolo, significativamente, recita: “Tutti gli esseri
umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
Ma il punto è proprio
questo: se l’uomo fa parte del regno degli “animali” (e su questo non vi è
dubbio), i casi sono due: o il titolo della Dichiarazione del ’78 deve essere
modificato in “Dichiarazione universale dei diritti degli animali diversi
dall’uomo” ovvero, come a me piacerebbe, occorrerebbe una rivisitazione
dell’intero impianto che tenga conto del fatto che l’uomo rientra nel regno
degli animali, e dunque una Dichiarazione Universale dei diritti di questi
ultimi deve essere concepita trovando un minimo comune denominatore dei diritti
di tutti gli animali, uomini compresi. Ecco, allora, che il primo articolo
della Dichiarazione del ’78, e cioè quello che recita: “Tutti gli animali
nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza”
assumerebbe tutta un’altra luce, perché sancirebbe un principio finalmente
comune a tutti gli animali, compresi gli uomini. E non avrebbe più senso
chiudere la predetta Dichiarazione con la formula, peraltro assai ambigua,
contenuta nell’art. 14, secondo cui “i diritti dell’animale devono essere
difesi dalla legge come i diritti dell’uomo”. Spero di avere chiarito sufficientemente
il concetto: se l’uomo fa parte (come fa parte) del regno animale, non ha senso
giustapporre i “diritti dell’animale” ai “diritti dell’uomo”. I diritti di
quest’ultimo, benchè più articolati, devono essere considerati un sottoinsieme
di quelli, più generali, che riguardano tutti gli animali.
In questo senso, il
titolo della mia tesi di laurea di venti anni fa, “Il diritto degli animali”,
finalmente può suonare bene anche dal punto di vista giuridico: perché con tale
espressione non ci stiamo più riferendo al “diritto degli altri animali”, ma a
principi giuridici che riguardano tanto gli uomini quanto gli altri animali.
Mi perdoneranno i cultori
del diritto romano se ricorro ad una analogia non perfettamente calzante, ma
che può meglio chiarire - al termine di un ragionamento che mi propongo di
delineare brevemente - quanto sto affermando e che può dare un nuovo contenuto
alla nozione di ius animalium
elaborata da Henry Salt alla fine dell’800[7]. Ad un certo punto dello
sviluppo dei traffici commerciali dell’antica Roma, quando a Roma si
riversarono mercanti da ogni città del mondo conosciuto, si pose il problema
del diritto applicabile alle controversie che non riguardavano i cittadini
romani (cives) tra loro, bensì che
insorgevano tra i cives e i peregrini (gli stranieri), ovvero tra i peregrini nei loro rapporti l’uno con l’altro. Lo ius civile, invero, era stato elaborato solo
per i cives romani e dunque si doveva
fare ricorso ad altre regole. Venne così elaborato lo ius gentium, cioè l’insieme l'insieme di regole che aveva la sua
fonte nella naturalis ratio e che
veniva osservato in eguale misura tra tutti i popoli. Le controversie tra cives e peregrini o tra questi ultimi tra loro divennero poi così frequenti
nella prassi giudiziaria che nel 242 a.C. venne creato un secondo praetor, il cd. praetor peregrinus, che iniziò ad affiancare quello già esistente,
che assunse il nome di praetor urbanus.
Con il passare dei secoli, le norme codificate del praetor peregrinus furono applicate anche ai rapporti tra i cives.
Ebbene, tornando al
rapporto con gli altri animali, è agevole constatare come il nostro ordinamento
(e lo stesso vale per quello degli altri Stati) sia stato elaborato dall’uomo
ed è finalizzato a regolamentare le vicende umane o che attingono gli interessi
dell’essere umano (un po’ come i cittadini romani avevano costruito lo ius
civile per regolare solo i rapporti tra i cives).
La persona fisica (ai
fini della nostra disamina non interessano né le persone giuridiche né gli enti
che rilevano nel diritto internazionale) acquista la qualità di soggetto di
diritto con la sua nascita e la perde con la sua morte. Dunque, per il solo
fatto di essere nato, un essere umano è considerato dall’ordinamento un
soggetto di diritto. La soggettività giuridica, che implica la possibilità di essere
parte di rapporti giuridici e quindi di essere destinatario delle norme dello
stesso ordinamento, è correlata alla capacità giuridica, cioè alla idoneità a
essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, ma non alla capacità di
agire, che è la capacità di un soggetto giuridico di porre in essere atti
giuridici validi. Anche chi è incapace di agire può essere un soggetto di
diritto.
Dunque, non vi sarebbe
alcun ostacolo di tipo giuridico al riconoscimento della qualità di soggetti di
diritto a tutti gli animali sin dalla nascita[8]. Semplicemente, questa
qualità dovrebbe essere loro riconosciuta con una norma positiva, magari di
rango costituzionale[9], senza bisogno di
ricercare un fondamento che accumuni a noi uomini gli altri animali (la
capacità di provare dolore ovvero l’essere “soggetti-di-una-vita”). Così come
finora questa qualità è stata attribuita in modo assiomatico solo agli esseri
umani, allo stesso modo dovrebbe essere attribuita a tutti gli animali, per il
solo fatto di essere nati tali. Se è giustificabile che gli uomini abbiano
concepito sinora le norme giuridiche come finalizzate a regolare le sole
vicende umane, oggi è innegabile che alcuni diritti fondamentali debbano essere assicurati a tutti gli animali
in quanto appartenenti al regno animale, di cui fa parte anche l’uomo, ed è
questa la nuova accezione che propongo di ius
animalium (una sorta di ius gentium che però riguarda non le regole
comuni tra i popoli, ma quelle che riguardano tutti gli animali, uomini
compresi). Ovviamente si tratterebbe di una limitata serie di diritti della
personalità (come il diritto alla vita e alla non sofferenza)[10] e certamente non di diritti
soggettivi di cui gli altri animali non saprebbero cosa fare[11].
Gli ostacoli, ovviamente,
sono di tipo pratico e politico. Sancire la soggettività giuridica degli
animali significa creare enormi problemi sulla legittimità degli allevamenti e
dell’alimentazione a base di carne, della caccia, della sperimentazione animale
e di tutte quelle attività che sono oggi tollerate dal nostro ordinamento e da
quello degli Stati più evoluti al mondo[12].
Ma, allo stesso tempo, il
mancato salto di qualità dei nostri ordinamenti verso questo tipo di
riconoscimento comporta delle implicazioni che sono comunque passibili di
critiche, sia dal punto di vista teorico che pratico.
Dal punto di vista
teorico, appare evidente che la soggettività giuridica o c’è oppure non c’è, tertium non datur (anche se alcuni
giuristi hanno provato a sostenere la configurabilità di forme di soggettività
di grado minore, ma con tesi non convincenti). Pertanto, non riconoscere la
soggettività agli animali vuol dire automaticamente tenerli ancora relegati
nello status giuridico delle cose (res), benchè con la peculiarità di
essere capaci di provare dolore. Si tratterebbe, dunque, di “cose senzienti”,
ed ecco che ritorna l’inquietante interrogativo: dai tempi di Bentham ad oggi è
davvero cambiato così poco? Se è vero che le società moderne sono pronte a
superare la visione degli animali come mere cose, le norme di diritto positivo
non possono che concedere a tutti gli animali la cittadinanza nel mondo dei
“soggetti di diritto”.
Da un punto di vista
pratico, poi, il mancato riconoscimento della soggettività giuridica agli
animali rischia di aprire un lungo periodo di stagnazione nelle battaglie a
tutela dei loro diritti, perché siamo ormai giunti ad un punto in cui la
normativa che li riguarda, benchè disorganica e bisognosa di una codificazione
organica[13],
non è passibile di grandi miglioramenti. La lotta alle zoomafie, allo
sfruttamento degli animali negli allevamenti intensivi o negli spettacoli
ludici, e tutte le altre attività di ingiustificabile sfruttamento degli
animali potrà ricevere impulso solo dal predetto riconoscimento, che sarà
certamente foriero di problemi applicativi ma aprirà una nuova frontiera nel
campo della tutela animale che sta per diventare una priorità a livello globale
sotto tutti i punti di vista, compreso quello della sopravvivenza dell’uomo
sulla Terra[14].
L’insostenibilità e la crudeltà degli allevamenti intensivi ha ormai raggiunto
livelli tali da rendere solo pionieristico il saggio-denuncia intitolato “Animal Machines” (1964), con cui la
scrittrice Ruth Harrison metteva in evidenza gli aspetti negativi legati a
queste modalità di allevamento degli animali.
Le norme sulla tutela del
benessere animale dunque non reggono l’urto dei cambiamenti che sono
intervenuti negli ultimi decenni sull’impiego della vita animale per la
produzione di beni, soprattutto alimentari, ad uso e consumo umano, ed occorre
superare la stagione cosiddetta “welfarista” attraverso una fondazione in senso
giuspositivista della tutela dei diritti di ogni animale, a partire dal
riconoscimento di una soggettività giuridica per ogni appartenente al regno
animale[15].
Occorre dunque arrivare
ad un’ampia revisione anche delle tradizionali categorie giuridiche che,
persino nei programmi di insegnamento universitari, continuano a concentrare
l’attenzione sulla ripartizione tra diritto pubblico e privato, tra diritto
civile e penale, e relegano materie come il diritto all’ambiente ad una materia
di contorno buona per qualche esame complementare e la materia del diritto
degli animali ancora oggi come una sorta di stravaganza giuridica.
Se le vicende pubbliche e
private incidono su temi ambientali che riguardano l’intero globo, e se i
principi di sostenibilità devono costituire la bussola dell’agire di uomini,
imprese e Stati, sarebbe il caso di capire che la materia del diritto
dell’ambiente dovrebbe essere vista come sovraordinata a tutte le altre, e
farne ampio oggetto di studio e migliorarne la codificazione a livello
internazionale. All’interno del cerchio più ampio della materia ambientale,
dovrebbe trovare spazio la tutela degli animali, con norme che valgono per
tutti gli animali, uomini compresi. Le nostre umane vicende, poi, continueranno
a essere regolate dalle norme che finora hanno catturato la quasi totalità
della nostra attenzione negli studi giuridici e nella prassi applicativa.
Occorre dunque un totale
rovesciamento di prospettiva, mediante la presa di coscienza, non solo in
astratto, ma in concreto, che gli esseri umani non sono al centro del mondo e
che le norme che riguardano le nostre vicende umane dovrebbero essere un
sottoinsieme di quelle, sovraordinate, che tutelano l’ambiente e la vita
animale su questo pianeta.
Questa totale
rivisitazione dell’approccio culturale e giuridico relativo al rapporto
uomo-ambiente e uomo-altri animali dovrebbe riguardare anche il modo in cui si
intendono portare avanti, oggi, le istanze animaliste. Invero, ha in gran parte
perso la spinta propulsiva l’impostazione basata sul richiamo analogico alle
istanze di emancipazione dei gruppi umani discriminati (schiavi, neri, donne)
su cui è basata buona parte dell’animalismo contemporaneo, e che anche in tale
modo ha “umanizzato” gli animali incentivando quell’impostazione
antropocentrica che paradossalmente si proponeva di contestare (anche se
continua a suscitare fascinazione il concetto dell’expanding circle elaborato da Peter Singer, il cerchio della
considerazione morale, sociale e giuridica che dopo aver consentito di superare
– almeno in astratto - la stagione dello schiavismo, del razzismo, del
sessismo, vuole ora ricomprendere al proprio interno tutti gli animali magari
arrivando ad includere ogni forma di essere vivente).
Il pericolo di questa
latente “umanizzazione” degli animali è stato ben evidenziato da Luisella
Battaglia, la quale ha affermato: “rispettare
qualcuno solo nella misura in cui è simile a noi è una concezione ben misera
del rispetto”[16]. Tuttavia, Luisella
Battaglia, nell’auspicare un’etica interspecifica fondata sulla “diversità” anziché sull’”assimiliazione”[17], non risolve il problema
del fondamento etico e giuridico della tutela da assicurare agli animali. Ed
invero, anche se è suggestivo affermare che occorre imparare a rispettare ciò
che è “diverso”, è innegabile che il fondamento della tutela deriva poi sempre
da un’assimilazione, in quanto occorre sottoporre situazioni simili a regole
simili. Il passaggio che ritengo ancora una volta mancante riguarda la
direzione dell’assimilazione: non è corretto dire che loro (gli altri animali)
sono simili a noi (gli uomini), ma, al contrario, siamo noi (gli uomini) che
siamo simili a loro (gli altri animali), appartenendo allo stesso regno
animale.
Si potrebbe obiettare che
agli altri animali non interesserebbe affatto essere sottoposti a norme
giuridiche, che non esistono in natura, e che comunque gli uomini dagli animali
non possono esigere alcuna conformazione alle norme di un ordinamento positivo.
Ma il fatto è che il diritto positivo comunque ha ad oggetto anche la vita
animale e l’evoluzione dei nostri rapporti con gli altri animali, allo stato
attuale, non può essere fermo alle nozioni di questi ultimi come mere cose
“senzienti”, per i motivi che ho sopra illustrato. Anche il tradizionale
contrasto tra leggi di natura e leggi morali e giuridiche può essere risolto con
le teorie evoluzionistiche. Darwin riteneva che anche l’impulso alla
considerazione etica è sottoposto alle leggi dell’evoluzione e ipotizzava che
la morale potesse superare i confini della specie umana per includervi tutti
gli animali[18].
Allo stesso modo, la soggettività giuridica può e deve superare i confini della
specie umana ed essere estesa a tutti gli animali.
A questo punto, nella
piena consapevolezza di avere già “osato” molto con questo scritto vorrei
concludere il mio lavoro con un riferimento a una teoria, né etica né
giuridica, ma a mio avviso intimamente connessa con le tematiche di cui ho
parlato e rivoluzionaria tanto quanto la teoria evoluzionistica. E’ la teoria
della spread mind, un’evoluzione del
modello della “mente estesa” proposto dai filosofi David Chalmers e Andy Clark
nel 1998, secondo cui la nostra coscienza, la nostra mente, da sempre supposta
all’interno del nostro corpo, sia fuori da esso e sia costituita da tutto ciò
che fisicamente ci circonda e che esiste in relazione a noi. Si tratta di una
teoria propugnata da Riccardo Manzotti[19], che contribuisce ad
aprire nuovi scenari, filosofici, etici e scientifici, anche sul nostro
rapporto con l’ambiente e con gli altri animali, nel senso di una sempre
maggiore consapevolezza della nostra interconnessione con tutto ciò che fino a
ieri è stato ritenuto “altro” rispetto all’uomo e che può portare, in futuro,
ad ulteriori spunti di riflessione etica e giuridica su queste tematiche.
[1] Enpa, Sintesi della relazione di
Ernesto Eula sul tema “Doveri degli uomini e diritti degli animali”, Grafica
Artigiana, Roma, 1961, p. 5
[2] P. Singer, Liberazione animale
(1975), Il Saggiatore, Milano, 2003
[3] T. Regan, The Case for Animal Rights, edito in Italia nel 1990 da Garzanti
con il titolo “I diritti animali”
[4] F. Rescigno, I diritti degli
animali. Da res a soggetti, Giappichelli, Torino, 2005, p. 60
[5] Cfr. Claude Levi-Strauss, Lo sguardo da lontano, il Saggiatore,
Milano 2010
[6] J. Bentham, Introduzione ai
principi della morale e della legislazione (1789) Utet, Torino, 1998, pp.
421-422
[7] cfr. H. S. Salt, I diritti
degli animali, ESI, Napoli, 2015
[8] Sul piano morale è stata
ampiamente ripresa nella letteratura animalista la teoria dei “casi marginali”
di Peter Singer, secondo cui sono comunque inclusi nella sfera dei pazienti
morali anche gli uomini privi di raziocinio, autocoscienza o
autodeterminazione, come i neonati, i cerebrolesi, le persone in coma. Dal punto
di vista giuridico, utilizzando lo schema dei “casi marginali”, si è sostenuto
che gli esseri umani potrebbero tutelare gli interessi degli animali, privi di
capacità giuridica, o di una parte di essi, come avviene per le persone affette
da gravi deficit mentali. Cfr. sul punto, I diritti degli animali.
Prospettive bioetiche e giuridiche, a cura di S. Castignone, Il Mulino,
Bologna, 1988, p. 18.
[9] Vi sono previsioni sulla tutela
degli animali nella Costituzione della Svizzera (artt. 78, 79 e 80), analogamente
a quanto disposto da alcune costituzioni cantonali (art. 31 della Costituzione
del Cantone di Berna, art. 103 della Costituzione del Cantone di Zurigo).
Parimenti, l’art. 20 del Grundgesetz indica la protezione degli animali
tra le finalità dell’azione dello stato tedesco, analogamente a quanto disposto
dalle costituzioni dei Länder (art. 31 della Costituzione di Berlino e art. 6 b
della Costituzione della Bassa Sassonia), ma tali previsioni non ancora
riconoscono una soggettività giuridica agli animali. In Italia è attualmente
ferma la proposta di riforma dell’art. 9 della Costituzione, finalizzata ad
integrare il testo del predetto articolo con la previsione che la Repubblica
“protegge le biodiversità e promuove il rispetto degli animali”. In ogni caso,
anche qualora venisse approvata tale riforma, saremmo comunque molto lontani
dal riconoscimento di una soggettività giuridica in capo agli animali.
[10] Secondo alcuni autori, è possibile
riconoscere una sorta di capacità giuridica in capo agli animali purché non in
modo generico ma solo in relazione a situazioni concrete (cfr. A. Somma, Lo
Status dell’animale, in G. Alpa (a cura di), Corso di sistemi giuridici
comparati, Torino, 1996, 469).
[11] Una disamina accurata di tali
diritti della personalità in capo agli altri animali è svolta da Francesca
Rescigno (I Diritti degli animali. Da res a soggetti, Giappichelli
Editore) in un’ottica di bilanciamento con gli interessi umani.
[12] Anche nell’antichità non sono
mancate le voci discordanti dal coro dei sostenitori della supremazia dell’uomo
sugli altri animali. Ad esempio, Plutarco riteneva che l’uccisione degli
animali a scopo di nutrimento fosse una “gran crudeltà” se non motivata da uno
stato di “necessità” (cfr. Plutarco, Del mangiare carne, in Opuscoli morali,
Firenze, 1820).
[13] cfr. M. Santoloci, In nome del
popolo maltrattato. La tutela giuridica degli altri animali, Satyagraha,
Torino, 1990
[14] cfr. sul punto Valerio Pocar, Gli
animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Laterza, pp. 103-104
[15] sulla dicotomia tra welfarism e
rightism animale, cfr. M. Tallacchini, Appunti di filosofia della
legislazione animale, in Per un codice degli animali, Milano,
Giuffrè, 2001
[16] Luisella Battaglia, Etica e diritti degli animali, Edizioni
Laterza, p. 57)
[17] cfr. Giulia Guazzaloca, Primo:
non maltrattare, Edizioni Laterza, p. 181
[18] (cfr. Animali non umani:
responsabilità e diritti. Un percorso storico-filosofico, a cura di
Barreca, Unicopli, Milano, 2003, pp. 9 e ss.
[19] cfr. Manzotti, The Spread Mind.
Why Consciousness and World are one and the same, OR Books, 2017
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