domenica 17 maggio 2020

DIRITTI UMANI E DIRITTI DEGLI ANIMALI. UNA NUOVA PROSPETTIVA PER LO IUS ANIMALIUM (saggio pubblicato sulla rivista PQM n. II/2019


Quando, circa venti anni fa, proposi alla professoressa Maria Gabriella Esposito, docente di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Teramo, una tesi sulla tutela giuridica degli animali, la stessa si mostrò interessata a questa tematica e mi assegnò il seguente titolo: “Il diritto degli animali”.
Quel titolo, all’epoca, non mi piaceva tanto. Mi sembrava poco preciso dal punto di vista giuridico, in quanto pensavo che non fosse corretto parlare di “diritto degli animali”, non ritenendo questi ultimi soggetti di diritto. All’epoca il punto di arrivo delle riflessioni sul rapporto uomo-altri animali mi sembrava ben condensato nei precetti della cosiddetta “etica della responsabilità”, secondo cui il nostro compito deve essere quello di prenderci cura degli animali, essendo questi ultimi capaci di sofferenza, benché privi di soggettività giuridica. Sul piano giuridico, tali posizioni possono ritenersi chiaramente esposte nella relazione presentata dal primo presidente della Corte di Cassazione Ernesto Eula al convegno organizzato nel 1961 dal titolo Gli italiani e la natura, in cui il predetto magistrato parlò di “una somma di doveri per gli uomini” nei confronti degli animali. Questi ultimi, pur privi di soggettività giuridica, non potevano essere visti come semplici cose e pertanto si doveva riconoscere loro “un diritto di rispetto, di umana comprensione, di moderazione negli usi”[1].
Come noto, un grande impulso ad una radicale revisione del modo di vedere il rapporto uomo-animali è stato dato dalle teorie, elaborate a partire dagli anni 70 del secolo scorso, da Peter Singer e Tom Regan, che hanno definitivamente messo da parte l’approccio di tipo caritatevole tipico delle originarie, primordiali battaglie per migliorare, già agli inizi del ‘900, le condizioni di vita degli animali. Peter Singer è un filosofo australiano, autore del celebre testo “Liberazione animale”, che fa leva sulla capacità degli animali di soffrire per farne discendere il nostro dovere di sottrarli da ogni forma di inflizione del dolore[2]. Tom Regan è un filosofo statunitense, che ha concentrato la sua attenzione sul fatto che ogni animale non solo può provare dolore, ma è “soggetto di una vita”, la quale ha valore di per sé[3], e su questo approccio di tipo giusnaturalista ha fondato la sua etica di rispetto per tutti gli animali “al di là di qualsiasi discriminazione”[4].

Nel libro “I diritti animali”, Regan fornisce una definizione dei “soggetti di una vita”: «Gli individui sono soggetti-di-una-vita se hanno credenze e desideri, percezione, memoria, senso del futuro, una vita emozionale, nonché sentimenti di piacere e dolore, interessi-preferenze e interessi-benessere, capacità di dare inizio all'azione in vista della gratificazione dei propri desideri e del conseguimento dei propri obiettivi, identità psicofisica nel tempo, e benessere individuale nel senso che la loro esperienza di vita è per loro positiva o negativa in termini indipendenti dalle loro utilità per altri e dal loro essere oggetto di interesse per chiunque altro».
Entrambi questi pensatori, dunque, per estendere agli animali la considerazione morale, hanno fatto appello a caratteristiche che appartengono all'essere umano, e per questo si sono esposti a critiche di velato antropocentrismo, recentemente formulate dagli esponenti del cosiddetto antispecismo di seconda generazione, movimento culturale che si propone di scardinare dalle fondamenta la separazione sempre in qualche modo postulata tra l'essere umano e gli altri animali[5].
Personalmente credo che il problema di fondo della tendenza a considerare l’uomo al centro di ogni tipo di interesse sia dovuto al fatto che a tutt’oggi non abbiamo ancora metabolizzato la profonda rivoluzione culturale che ci è stata consegnata dalle intuizioni, tutte confermate, di Charles Darwin. Ancora oggi, invero, non abbiamo ben chiare le implicazioni della nostra appartenenza al regno animale.
La conferma più lampante di quanto sto affermando la si rinviene nel continuo (e giustificabile) riferimento che gli stessi animalisti fanno alla qualità di “esseri senzienti” posseduta dagli animali, ora sancita anche dal Trattato di Lisbona, il quale impone agli Stati membri dell’Unione Europea di tenere conto di questa caratteristica degli animali (quella, per l’appunto, di provare sensazioni) quando vengono adottate leggi che in qualche modo li riguardano. La domanda che mi viene spontanea è la seguente: ma davvero siamo ancora a questo punto? Davvero, ancora oggi, nell’anno di grazia 2019, dobbiamo ricordare a noi stessi che gli animali sono “esseri senzienti”? Ma già Bentham nel lontano 1789 diceva che «la domanda non è: “possono ragionare?” né “possono parlare?” ma “possono soffrire?”»[6]. E dunque, ripeto: siamo ancora a questo punto? Dov’è quel meccanismo inceppato nel ragionamento sui diritti degli animali che ci costringe a ricercare un appiglio (l’essere l’animale “senziente”, ovvero “soggetto-di-una-vita”) per concedere agli animali una tutela giuridica?
La risposta a queste domande, come spesso accade, è talmente banale da essere al contempo anche sfuggevole. Il fatto è che quando pensiamo agli animali, facciamo fatica a ricomprendere gli umani in questa categoria, e questo atteggiamento mentale non riguarda solo la maggioranza delle persone che non sono appassionate alle tematiche animaliste, ma gli stessi difensori dei diritti degli animali.
Faccio un esempio che spero sia da solo sufficiente a chiarire il concetto che sto cercando di esporre. Come noto, il 15 ottobre 1978 presso la sede dell'UNESCO a Parigi è stata sottoscritta da diverse associazioni animaliste la Dichiarazione universale dei diritti dell'animale. In realtà, leggendo il testo, ci si accorge agevolmente che esso, più che sancire i “diritti dell’animale”, si propone di dare indicazioni finalizzate a indurre gli uomini ad un comportamento di rispetto verso l'ambiente e gli animali, ma è assolutamente netta la separazione tra l’uomo e gli altri animali. All’articolo 2 si legge: “Ogni animale ha diritto alla considerazione, alle cure e alla protezione dell’uomo”; all’articolo 3 si legge: “Se la soppressione di un animale è necessaria, deve essere istantanea, senza dolore, né angoscia”; all’art. 9 si legge: “Nel caso che l’animale sia allevato per l’alimentazione, deve essere nutrito, alloggiato, trasportato e ucciso senza che per lui ne risulti ansietà e dolore”; all’art. 10 si legge: “Nessun animale deve essere usato per il divertimento dell’uomo”. E’ talmente evidente che il termine “animali” sta ad indicare gli animali diversi dall’uomo che in questo senso deve essere interpretato certamente anche il primo articolo della dichiarazione, e cioè quello che recita: “Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza”. Nessuno avrà mai messo in dubbio che la preoccupazione delle associazioni firmatarie del documento era, per l’appunto, quello di affermare il diritto alla vita per gli animali diversi dall’uomo. D’altro canto, i diritti umani erano già stati sanciti trent’anni prima con la Dichiarazione adottata, sempre a Parigi, dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il cui primo articolo, significativamente, recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
Ma il punto è proprio questo: se l’uomo fa parte del regno degli “animali” (e su questo non vi è dubbio), i casi sono due: o il titolo della Dichiarazione del ’78 deve essere modificato in “Dichiarazione universale dei diritti degli animali diversi dall’uomo” ovvero, come a me piacerebbe, occorrerebbe una rivisitazione dell’intero impianto che tenga conto del fatto che l’uomo rientra nel regno degli animali, e dunque una Dichiarazione Universale dei diritti di questi ultimi deve essere concepita trovando un minimo comune denominatore dei diritti di tutti gli animali, uomini compresi. Ecco, allora, che il primo articolo della Dichiarazione del ’78, e cioè quello che recita: “Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza” assumerebbe tutta un’altra luce, perché sancirebbe un principio finalmente comune a tutti gli animali, compresi gli uomini. E non avrebbe più senso chiudere la predetta Dichiarazione con la formula, peraltro assai ambigua, contenuta nell’art. 14, secondo cui “i diritti dell’animale devono essere difesi dalla legge come i diritti dell’uomo”. Spero di avere chiarito sufficientemente il concetto: se l’uomo fa parte (come fa parte) del regno animale, non ha senso giustapporre i “diritti dell’animale” ai “diritti dell’uomo”. I diritti di quest’ultimo, benchè più articolati, devono essere considerati un sottoinsieme di quelli, più generali, che riguardano tutti gli animali.
In questo senso, il titolo della mia tesi di laurea di venti anni fa, “Il diritto degli animali”, finalmente può suonare bene anche dal punto di vista giuridico: perché con tale espressione non ci stiamo più riferendo al “diritto degli altri animali”, ma a principi giuridici che riguardano tanto gli uomini quanto gli altri animali.
Mi perdoneranno i cultori del diritto romano se ricorro ad una analogia non perfettamente calzante, ma che può meglio chiarire - al termine di un ragionamento che mi propongo di delineare brevemente - quanto sto affermando e che può dare un nuovo contenuto alla nozione di ius animalium elaborata da Henry Salt alla fine dell’800[7]. Ad un certo punto dello sviluppo dei traffici commerciali dell’antica Roma, quando a Roma si riversarono mercanti da ogni città del mondo conosciuto, si pose il problema del diritto applicabile alle controversie che non riguardavano i cittadini romani (cives) tra loro, bensì che insorgevano tra i cives e i peregrini (gli stranieri), ovvero tra i peregrini nei loro rapporti l’uno con l’altro. Lo ius civile, invero, era stato elaborato solo per i cives romani e dunque si doveva fare ricorso ad altre regole. Venne così elaborato lo ius gentium, cioè l’insieme l'insieme di regole che aveva la sua fonte nella naturalis ratio e che veniva osservato in eguale misura tra tutti i popoli. Le controversie tra cives e peregrini o tra questi ultimi tra loro divennero poi così frequenti nella prassi giudiziaria che nel 242 a.C. venne creato un secondo praetor, il cd. praetor peregrinus, che iniziò ad affiancare quello già esistente, che assunse il nome di praetor urbanus. Con il passare dei secoli, le norme codificate del praetor peregrinus furono applicate anche ai rapporti tra i cives.
Ebbene, tornando al rapporto con gli altri animali, è agevole constatare come il nostro ordinamento (e lo stesso vale per quello degli altri Stati) sia stato elaborato dall’uomo ed è finalizzato a regolamentare le vicende umane o che attingono gli interessi dell’essere umano (un po’ come i cittadini romani avevano costruito lo ius civile per regolare solo i rapporti tra i cives).
La persona fisica (ai fini della nostra disamina non interessano né le persone giuridiche né gli enti che rilevano nel diritto internazionale) acquista la qualità di soggetto di diritto con la sua nascita e la perde con la sua morte. Dunque, per il solo fatto di essere nato, un essere umano è considerato dall’ordinamento un soggetto di diritto. La soggettività giuridica, che implica la possibilità di essere parte di rapporti giuridici e quindi di essere destinatario delle norme dello stesso ordinamento, è correlata alla capacità giuridica, cioè alla idoneità a essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, ma non alla capacità di agire, che è la capacità di un soggetto giuridico di porre in essere atti giuridici validi. Anche chi è incapace di agire può essere un soggetto di diritto.
Dunque, non vi sarebbe alcun ostacolo di tipo giuridico al riconoscimento della qualità di soggetti di diritto a tutti gli animali sin dalla nascita[8]. Semplicemente, questa qualità dovrebbe essere loro riconosciuta con una norma positiva, magari di rango costituzionale[9], senza bisogno di ricercare un fondamento che accumuni a noi uomini gli altri animali (la capacità di provare dolore ovvero l’essere “soggetti-di-una-vita”). Così come finora questa qualità è stata attribuita in modo assiomatico solo agli esseri umani, allo stesso modo dovrebbe essere attribuita a tutti gli animali, per il solo fatto di essere nati tali. Se è giustificabile che gli uomini abbiano concepito sinora le norme giuridiche come finalizzate a regolare le sole vicende umane, oggi è innegabile che alcuni diritti fondamentali  debbano essere assicurati a tutti gli animali in quanto appartenenti al regno animale, di cui fa parte anche l’uomo, ed è questa la nuova accezione che propongo di ius animalium (una sorta di ius gentium che però riguarda non le regole comuni tra i popoli, ma quelle che riguardano tutti gli animali, uomini compresi). Ovviamente si tratterebbe di una limitata serie di diritti della personalità (come il diritto alla vita e alla non sofferenza)[10] e certamente non di diritti soggettivi di cui gli altri animali non saprebbero cosa fare[11].
Gli ostacoli, ovviamente, sono di tipo pratico e politico. Sancire la soggettività giuridica degli animali significa creare enormi problemi sulla legittimità degli allevamenti e dell’alimentazione a base di carne, della caccia, della sperimentazione animale e di tutte quelle attività che sono oggi tollerate dal nostro ordinamento e da quello degli Stati più evoluti al mondo[12].
Ma, allo stesso tempo, il mancato salto di qualità dei nostri ordinamenti verso questo tipo di riconoscimento comporta delle implicazioni che sono comunque passibili di critiche, sia dal punto di vista teorico che pratico.
Dal punto di vista teorico, appare evidente che la soggettività giuridica o c’è oppure non c’è, tertium non datur (anche se alcuni giuristi hanno provato a sostenere la configurabilità di forme di soggettività di grado minore, ma con tesi non convincenti). Pertanto, non riconoscere la soggettività agli animali vuol dire automaticamente tenerli ancora relegati nello status giuridico delle cose (res), benchè con la peculiarità di essere capaci di provare dolore. Si tratterebbe, dunque, di “cose senzienti”, ed ecco che ritorna l’inquietante interrogativo: dai tempi di Bentham ad oggi è davvero cambiato così poco? Se è vero che le società moderne sono pronte a superare la visione degli animali come mere cose, le norme di diritto positivo non possono che concedere a tutti gli animali la cittadinanza nel mondo dei “soggetti di diritto”.
Da un punto di vista pratico, poi, il mancato riconoscimento della soggettività giuridica agli animali rischia di aprire un lungo periodo di stagnazione nelle battaglie a tutela dei loro diritti, perché siamo ormai giunti ad un punto in cui la normativa che li riguarda, benchè disorganica e bisognosa di una codificazione organica[13], non è passibile di grandi miglioramenti. La lotta alle zoomafie, allo sfruttamento degli animali negli allevamenti intensivi o negli spettacoli ludici, e tutte le altre attività di ingiustificabile sfruttamento degli animali potrà ricevere impulso solo dal predetto riconoscimento, che sarà certamente foriero di problemi applicativi ma aprirà una nuova frontiera nel campo della tutela animale che sta per diventare una priorità a livello globale sotto tutti i punti di vista, compreso quello della sopravvivenza dell’uomo sulla Terra[14]. L’insostenibilità e la crudeltà degli allevamenti intensivi ha ormai raggiunto livelli tali da rendere solo pionieristico il saggio-denuncia intitolato “Animal Machines” (1964), con cui la scrittrice Ruth Harrison metteva in evidenza gli aspetti negativi legati a queste modalità di allevamento degli animali.
Le norme sulla tutela del benessere animale dunque non reggono l’urto dei cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi decenni sull’impiego della vita animale per la produzione di beni, soprattutto alimentari, ad uso e consumo umano, ed occorre superare la stagione cosiddetta “welfarista” attraverso una fondazione in senso giuspositivista della tutela dei diritti di ogni animale, a partire dal riconoscimento di una soggettività giuridica per ogni appartenente al regno animale[15].
Occorre dunque arrivare ad un’ampia revisione anche delle tradizionali categorie giuridiche che, persino nei programmi di insegnamento universitari, continuano a concentrare l’attenzione sulla ripartizione tra diritto pubblico e privato, tra diritto civile e penale, e relegano materie come il diritto all’ambiente ad una materia di contorno buona per qualche esame complementare e la materia del diritto degli animali ancora oggi come una sorta di stravaganza giuridica.
Se le vicende pubbliche e private incidono su temi ambientali che riguardano l’intero globo, e se i principi di sostenibilità devono costituire la bussola dell’agire di uomini, imprese e Stati, sarebbe il caso di capire che la materia del diritto dell’ambiente dovrebbe essere vista come sovraordinata a tutte le altre, e farne ampio oggetto di studio e migliorarne la codificazione a livello internazionale. All’interno del cerchio più ampio della materia ambientale, dovrebbe trovare spazio la tutela degli animali, con norme che valgono per tutti gli animali, uomini compresi. Le nostre umane vicende, poi, continueranno a essere regolate dalle norme che finora hanno catturato la quasi totalità della nostra attenzione negli studi giuridici e nella prassi applicativa.
Occorre dunque un totale rovesciamento di prospettiva, mediante la presa di coscienza, non solo in astratto, ma in concreto, che gli esseri umani non sono al centro del mondo e che le norme che riguardano le nostre vicende umane dovrebbero essere un sottoinsieme di quelle, sovraordinate, che tutelano l’ambiente e la vita animale su questo pianeta.
Questa totale rivisitazione dell’approccio culturale e giuridico relativo al rapporto uomo-ambiente e uomo-altri animali dovrebbe riguardare anche il modo in cui si intendono portare avanti, oggi, le istanze animaliste. Invero, ha in gran parte perso la spinta propulsiva l’impostazione basata sul richiamo analogico alle istanze di emancipazione dei gruppi umani discriminati (schiavi, neri, donne) su cui è basata buona parte dell’animalismo contemporaneo, e che anche in tale modo ha “umanizzato” gli animali incentivando quell’impostazione antropocentrica che paradossalmente si proponeva di contestare (anche se continua a suscitare fascinazione il concetto dell’expanding circle elaborato da Peter Singer, il cerchio della considerazione morale, sociale e giuridica che dopo aver consentito di superare – almeno in astratto - la stagione dello schiavismo, del razzismo, del sessismo, vuole ora ricomprendere al proprio interno tutti gli animali magari arrivando ad includere ogni forma di essere vivente).
Il pericolo di questa latente “umanizzazione” degli animali è stato ben evidenziato da Luisella Battaglia, la quale ha affermato: “rispettare qualcuno solo nella misura in cui è simile a noi è una concezione ben misera del rispetto[16]. Tuttavia, Luisella Battaglia, nell’auspicare un’etica interspecifica fondata sulla “diversità” anziché sull’”assimiliazione[17], non risolve il problema del fondamento etico e giuridico della tutela da assicurare agli animali. Ed invero, anche se è suggestivo affermare che occorre imparare a rispettare ciò che è “diverso”, è innegabile che il fondamento della tutela deriva poi sempre da un’assimilazione, in quanto occorre sottoporre situazioni simili a regole simili. Il passaggio che ritengo ancora una volta mancante riguarda la direzione dell’assimilazione: non è corretto dire che loro (gli altri animali) sono simili a noi (gli uomini), ma, al contrario, siamo noi (gli uomini) che siamo simili a loro (gli altri animali), appartenendo allo stesso regno animale.
Si potrebbe obiettare che agli altri animali non interesserebbe affatto essere sottoposti a norme giuridiche, che non esistono in natura, e che comunque gli uomini dagli animali non possono esigere alcuna conformazione alle norme di un ordinamento positivo. Ma il fatto è che il diritto positivo comunque ha ad oggetto anche la vita animale e l’evoluzione dei nostri rapporti con gli altri animali, allo stato attuale, non può essere fermo alle nozioni di questi ultimi come mere cose “senzienti”, per i motivi che ho sopra illustrato. Anche il tradizionale contrasto tra leggi di natura e leggi morali e giuridiche può essere risolto con le teorie evoluzionistiche. Darwin riteneva che anche l’impulso alla considerazione etica è sottoposto alle leggi dell’evoluzione e ipotizzava che la morale potesse superare i confini della specie umana per includervi tutti gli animali[18]. Allo stesso modo, la soggettività giuridica può e deve superare i confini della specie umana ed essere estesa a tutti gli animali.
A questo punto, nella piena consapevolezza di avere già “osato” molto con questo scritto vorrei concludere il mio lavoro con un riferimento a una teoria, né etica né giuridica, ma a mio avviso intimamente connessa con le tematiche di cui ho parlato e rivoluzionaria tanto quanto la teoria evoluzionistica. E’ la teoria della spread mind, un’evoluzione del modello della “mente estesa” proposto dai filosofi David Chalmers e Andy Clark nel 1998, secondo cui la nostra coscienza, la nostra mente, da sempre supposta all’interno del nostro corpo, sia fuori da esso e sia costituita da tutto ciò che fisicamente ci circonda e che esiste in relazione a noi. Si tratta di una teoria propugnata da Riccardo Manzotti[19], che contribuisce ad aprire nuovi scenari, filosofici, etici e scientifici, anche sul nostro rapporto con l’ambiente e con gli altri animali, nel senso di una sempre maggiore consapevolezza della nostra interconnessione con tutto ciò che fino a ieri è stato ritenuto “altro” rispetto all’uomo e che può portare, in futuro, ad ulteriori spunti di riflessione etica e giuridica su queste tematiche.


[1] Enpa, Sintesi della relazione di Ernesto Eula sul tema “Doveri degli uomini e diritti degli animali”, Grafica Artigiana, Roma, 1961, p. 5
[2] P. Singer, Liberazione animale (1975), Il Saggiatore, Milano, 2003
[3] T. Regan, The Case for Animal Rights, edito in Italia nel 1990 da Garzanti con il titolo “I diritti animali
[4] F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Giappichelli, Torino, 2005, p. 60
[5] Cfr. Claude Levi-Strauss, Lo sguardo da lontano, il Saggiatore, Milano 2010
[6] J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1789) Utet, Torino, 1998, pp. 421-422
[7] cfr. H. S. Salt, I diritti degli animali, ESI, Napoli, 2015
[8] Sul piano morale è stata ampiamente ripresa nella letteratura animalista la teoria dei “casi marginali” di Peter Singer, secondo cui sono comunque inclusi nella sfera dei pazienti morali anche gli uomini privi di raziocinio, autocoscienza o autodeterminazione, come i neonati, i cerebrolesi, le persone in coma. Dal punto di vista giuridico, utilizzando lo schema dei “casi marginali”, si è sostenuto che gli esseri umani potrebbero tutelare gli interessi degli animali, privi di capacità giuridica, o di una parte di essi, come avviene per le persone affette da gravi deficit mentali. Cfr. sul punto, I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, a cura di S. Castignone, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 18.
[9] Vi sono previsioni sulla tutela degli animali nella Costituzione della Svizzera (artt. 78, 79 e 80), analogamente a quanto disposto da alcune costituzioni cantonali (art. 31 della Costituzione del Cantone di Berna, art. 103 della Costituzione del Cantone di Zurigo). Parimenti, l’art. 20 del Grundgesetz indica la protezione degli animali tra le finalità dell’azione dello stato tedesco, analogamente a quanto disposto dalle costituzioni dei Länder (art. 31 della Costituzione di Berlino e art. 6 b della Costituzione della Bassa Sassonia), ma tali previsioni non ancora riconoscono una soggettività giuridica agli animali. In Italia è attualmente ferma la proposta di riforma dell’art. 9 della Costituzione, finalizzata ad integrare il testo del predetto articolo con la previsione che la Repubblica “protegge le biodiversità e promuove il rispetto degli animali”. In ogni caso, anche qualora venisse approvata tale riforma, saremmo comunque molto lontani dal riconoscimento di una soggettività giuridica in capo agli animali.
[10] Secondo alcuni autori, è possibile riconoscere una sorta di capacità giuridica in capo agli animali purché non in modo generico ma solo in relazione a situazioni concrete (cfr. A. Somma, Lo Status dell’animale, in G. Alpa (a cura di), Corso di sistemi giuridici comparati, Torino, 1996, 469).
[11] Una disamina accurata di tali diritti della personalità in capo agli altri animali è svolta da Francesca Rescigno (I Diritti degli animali. Da res a soggetti, Giappichelli Editore) in un’ottica di bilanciamento con gli interessi umani.
[12] Anche nell’antichità non sono mancate le voci discordanti dal coro dei sostenitori della supremazia dell’uomo sugli altri animali. Ad esempio, Plutarco riteneva che l’uccisione degli animali a scopo di nutrimento fosse una “gran crudeltà” se non motivata da uno stato di “necessità” (cfr. Plutarco, Del mangiare carne, in Opuscoli morali, Firenze, 1820).
[13] cfr. M. Santoloci, In nome del popolo maltrattato. La tutela giuridica degli altri animali, Satyagraha, Torino, 1990
[14] cfr. sul punto Valerio Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Laterza, pp. 103-104
[15] sulla dicotomia tra welfarism e rightism animale, cfr. M. Tallacchini, Appunti di filosofia della legislazione animale, in Per un codice degli animali, Milano, Giuffrè, 2001
[16] Luisella Battaglia, Etica e diritti degli animali, Edizioni Laterza, p. 57)
[17] cfr. Giulia Guazzaloca, Primo: non maltrattare, Edizioni Laterza, p. 181
[18] (cfr. Animali non umani: responsabilità e diritti. Un percorso storico-filosofico, a cura di Barreca, Unicopli, Milano, 2003, pp. 9 e ss.
[19] cfr. Manzotti, The Spread Mind. Why Consciousness and World are one and the same, OR Books, 2017

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