La fantascienza,
come noto, ha come tema fondamentale l'impatto di una scienza o una tecnologia
– reale o immaginaria – sulla società e sull'individuo.
La prima
fantascienza aveva una forte base avventurosa ed era caratterizzata dalla
"meraviglia" per i progressi della scienza (si pensi ai romanzi di
Jules Verne), ma dagli anni quaranta cominciò a occuparsi più delle
ripercussioni del progresso scientifico che non delle ipotetiche conquiste
della scienza in sé stesse (è l’epoca della “Golden Age” della fantascienza, l’epoca
di Isaac Asimove e Ray Bradbury).
Dopo la fine
della seconda guerra mondiale e lo scoppio della bomba atomica l’approccio alla
fantascienza divenne più angosciato (iniziano a uscire i romanzi di Philip K.
Dick), e nel Regno Unito è il momento della New Wave e della fantascienza
sociologica (si pensi ai romanzi di James
G. Ballard), e poi del cyberpunk (si pensi al “Neuromante” di Gibson).
Da
contraltare a questa fantascienza c’è la science fantasy di Guerre stellari di
George Lucas che riporta in auge i temi della space opera degli anni quaranta.
Ma penso che
scrivere di fantascienza non ha senso se non per portare nella letteratura temi
di forte impatto sociale, che nella nostra epoca sono soprattutto, a mio
giudizio, quelli legati alle tematiche ambientali. Uno dei primi ad aver
affrontato questo tipo di temi è stato Frank Herbert nel ciclo di Dune (che ha molto
influenzato lo stesso Lucas, per stessa ammissione di quest’ultimo), in cui viene
immaginato un complesso sistema ecologico del pianeta Dune (chiamato Arrakis dai
Fremen, la sua popolazione autoctona), divenuto un mondo desertico, quasi
completamente privo di acqua (bene preziosissimo), e dunque con scenari che
anticipano temi che oggi sono di grande attualità. Temi ambientali sono
trattati anche da Francesco Verso nel suo romanzo “Livido”, in cui l'azione si svolge nei sobborghi di
una città imprecisata, circondata dalla “palta”, cioè da cumuli di immondizia
che invadono la periferia della megalopoli, e che ricordano il “kipple” di Philip
Dick.
La
fantascienza si intreccia anche con temi animalisti, e la cosa mi intriga
molto. La fantascienza,
soprattutto quella cinematografica, narra spesso come l’uomo possa resistere,
quasi sempre vittoriosamente, alle minacce che vengono dall'animalità o dalla
macchinalità (entità che spesso vengono proiettate sulle figure dell’alieno,
ossia ciò che è “altro” rispetto all’umano). Ma la fantascienza ci racconta
anche come l’uomo sia strutturalmente affine all’animale (si pensi alle
influenze dell’evoluzionismo darwiniano) o alla macchina (si pensi agli studi
di Turing che portano all’elaborazione dell’intelligenza artificiale “forte”).
Vi è dunque
un nesso inestricabile (anzi, un’ibridazione) tra umanità, animalità e
macchinalità, e l’apertura della fantascienza all’animalità e alla macchinalità
ci spinge a criticare i presupposti cartesiani della nostra cultura, secondo cui
la “res cogitans”, cioè l’intelligenza umana, è marcatamente distinta da tutto
il resto (“res extensa”). Senza contaminazione con l’alterità non ci sarebbe alcuna evoluzione. L’errore dell’umanesimo è stato proprio quello di aver considerato
l’alterità con disprezzo. L’evoluzione è un processo di interazione e
ibridativo con il non umano.
Un esempio
di questo filone letterario può essere considerato “Cuore di cane” di Michail Bulgakov, che narra la storia della trasformazione
chirurgica di un cane in un uomo. Si tratta di una satira sul nuovo regime
sovietico, che cercava di forgiare la società ex novo, ma anche di un romanzo
fantascientifico sui limiti delle scienze mediche (si pensi agli xenotrapianti).
Perché la
fantascienza deve essere in grado di predire e ammonire, deve essere letteratura
speculativa e sociale, non semplice ricerca della predizione azzeccata e della
meraviglia.
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