Desidero
innanzi tutto ringraziare Roberto Marchesini per avermi invitato a partecipare
a questo incontro, ma soprattutto ringrazio quella buona stella che mi ha
permesso di incrociare il mio percorso di studio e professionale con quello di
Roberto.
Ci sono
delle posizioni, sui temi politici e culturali che sono connessi alle cosiddette
battaglie animaliste, che fin da giovanissimo ho sostenuto in modo
assolutamente istintivo, ed è per me una grande soddisfazione ed anche una
gioia l’avere la possibilità, attraverso questi incontri, di cogliere in
maniera sempre più forte e nitida le conferme che ci vengono date dalle nuove
discipline legate all’etologia, alla psicologia cognitiva, alla neurobiologia,
che confortano sempre di più quelle mie istintive convizioni.
Anche nel
mondo del diritto gli animali sono oggetto di una sempre maggiore attenzione. Sul
piano giuridico, la frontiera che ora abbiamo di fronte è il tema della
soggettività da riconoscere agli animali. Questi ultimi, come noto, non sono
soggetti di diritto, dal momento che non hanno, né possono avere, capacità
giuridica. Tuttavia gli animali, pur non essendo soggetti di diritto, devono
essere destinatari di doveri da parte dell’uomo. La cosiddetta etica della
responsabilità, di cui è insigne portavoce la professoressa Luisella
Battaglia , ci dice che dunque il nostro compito deve essere
quello di prenderci cura degli animali, essendo questi ultimi comunque capaci
di sofferenza, benché privi di soggettività giuridica.
L’evoluzione
delle discipline scientifiche sopra richiamate apre con forza invece il tema,
che è anche un tema etico, del riconoscimento di una sorta di soggettività
giuridica a coloro che sono da considerarsi come “persone non umane”. Prendiamo
l’esempio dei delfini. Lori Marino, esperta di neuroanatomia dei cetacei presso
la Emory University
di Atlana, sostiene che i delfini hanno tutti i requisiti per essere definiti “persone”.
Il loro cervello è persino più grande in volume del nostro, ed ha una neocorteccia,
sede delle capacità cognitive superiori (che vanno dall’intelligenza sociale,
ai pensieri astratti, fino alla capacità di autocoscienza) molto sviluppata. Anche
Diana Reiss, ricercatrice dell’Hunter College presso la City University
of New York, studiosa dei mammiferi marini, concorda sul fatto che i
delfini non solo comprendono le istruzioni che vengono impartite dagli umani,
ma sono dotati di una mente e di
capacità di pensiero che li rende in grado anche di risolvere problemi inediti.
Dunque non
sono solo gli scimpanzé ad essere candidabili al titolo di “persone non umane”.
Da molti anni esiste il cosiddetto “Progetto Grandi Scimmie Antropomorfe” (in inglese “Great Ape Project”, che è anche il
titolo del libro in gran parte derivato dal movimento in favore
dei diritti degli animali, a cura
dei filosofi Paola Cavalieri e
Peter Singer), che si propone di ottenere, da parte dell ONU, una Dichiarazione dei Diritti delle
Grandi Scimmie Antropomorfe che
estenda a tutti i primati antropomorfi alcuni
dei diritti già riconosciuti
all'uomo, come il diritto alla vita, alla protezione della libertà individuale,
proprio sulla base della contiguità con gli umani.
Ora questa
caratteristica pare venir fuori anche da altre linee evolutive, ed anche ai
delfini si può adattare la definizione di “persone non umane”. Nel concetto di
“persona”, infatti, rientra, come fa notare Pietro Greco nell’articolo
“Ecologia delle menti” sulla rivista scientifica “Micron”, chi è consapevole
dell’ambiente in cui vive, ha personalità, autocontrollo, relazioni appropriate
sia con i membri della sua stessa specie, sia con gli altri esseri viventi, sia
con il resto dell’ambiente in cui vive. E dunque rientrano nella definizione
sia gli scimpanzé che i delfini, ed anche gli altri animali con le loro
intelligenze, che non sono “inferiori” dalla nostra, ma semplicemente “diverse”
dalla nostra.
Inoltre,
proprio recentemente un gruppo di ricercatori, tra cui neurofisiologi e neuroscienziati
computazionali, ha sostenuto, nella Cambridge
Declaration on Consciousness, che “l’assenza della neocorteccia non sembra
impedire agli animali di sperimentare stati affettivi” e che moltissimi
animali, dai polpi al pappagallo cenerino africano, sembrano possedere facoltà
cognitive e consapevolezza di sé.
Se ciò
dovesse essere confermato, lo statuto morale e giuridico degli animali dovrebbe
cambiare, e questi dovrebbero essere trattati davvero come “persone non umane”.
Le conseguenze sarebbero gigantesche, e ne conseguirebbe l’immediata chiusura
dei delfinari, degli zoo e di tanti altri luoghi dove si consumano incredibili
violenze nei confronti degli animali. Ed invero, un delfino costretto a vivere
in una vasca non solo sarebbe passibile di “maltrattamento”, ma altresì di una
sorta di “sequestro”, che, come noto, è un reato contro la persona.
Tentativi
di cambiare lo statuto giuridico degli animali li troviamo da molto tempo.
Addirittura se ne può individuare una traccia anche nel diritto romano, ed in
particolare nella concezione ulpianea dello ius
naturale, il diritto naturale comune
a uomini e animali.
Ma
è solo durante l’ultimo secolo che scienziati, umanisti, zoofili, giuristi,
sociologi e politici sono stati sollecitati ad affrontare seriamente il
problema della tutela della vita animale nella società. Ne è scaturito un ampio
dibattito mondiale che ha condotto alla Dichiarazione Universale dei
Diritti dell'Animale proclamata il 15 ottobre 1978 nella
sede dell'Unesco a Parigi.
Anche
se la predetta
Dichiarazione non ha alcuna forza cogente, si è trattato di un
passo avanti che ha portato molti Stati, nell’ultimo trentennio, ad emanare
numerose disposizioni a tutela degli animali, estendendo la disciplina
legislativa ad ogni aspetto del rapporto con l'uomo.
Attualmente,
il nostro codice penale punisce con pena detentiva l’uccisione ed il maltrattamento
degli animali, e la parola “etologia” è entrata nel predetto codice, visto che
il maltrattamento si ha quando l’animale viene trattato in modo incompatibile
con le sue caratteristiche etologiche.
Mi
è capitato di partecipare, come difensore di un’associazione animalista, a un
processo celebrato contro dei dipendenti del servizio veterinario della ASL che
avevano accalappiato un cane in maniera così violenta da provocargli uno shock
mortale. Quelle persone sono state assolte, ma è stato interessante vedere il
Giudice che ascoltava attentamente le parole del nostro consulente di parte che
illustrava le caratteristiche dello shock da cattura. Bisogna capire come
funziona la mente di un cane per evitare che questo possa accadere, e questo è
uno dei tanti esempi che si possono fare per vedere come la legge comincia ad
esigere che noi prendiamo in considerazione il modo in cui funziona la mente
degli altri animali, per comportarci correttamente con loro.
Ma ci sono
altre conseguenze di questa interrelazione, che ci riguardano direttamente.
Perché, come dice Pietro Greco nell’articolo sopra citato, chiederci se il
delfino possa essere definito “persona” con i conseguenti diritti, significa “non
solo interrogarsi sulla mente degli animali non umani, ma anche sulla nostra
mente e sulla nostra etica”.
Si apre il
tema, che è poi l’oggetto di questo incontro, delle relazioni tra le nostre e
le altre menti, che non devono essere necessariamente umane. Questo tema porta
tutta un’altra serie di implicazioni, che sono anche sociali e giuridiche,
sulle quali da tempo si interroga Roberto Marchesini, e che hanno ad oggetto il
nostro rapporto non solo con le menti degli altri animali, ma anche il rapporto
sempre più ibrido con le intelligenze artificiali. Ma, fino a quando questi
temi rimarranno avveniristici (lo sono sempre meno), rimane aperta la sola
discussione relativa ai rapporto con le menti degli altri animali.
L’etologia e la
psicologia cognitiva ci insegnano, come si legge nella locandina del manifesto,
che gli animali non sono macchine e che il loro comportamento non può essere
interpretato attraverso degli automatismi. Sono esseri intelligenti capaci di
operazioni mentali in alcuni casi anche superiori alle nostre. L’evoluzionismo
darwiniano lega indissolubilmente la nostra mente a quella degli altri animali.
C’è un’errata interpretazione dell’evoluzionismo, per cui esisterebbe una sorta di scala ascendente delle
creature viventi, con alla base le creature meno complesse e all’apice quelle
più evolute. L’evoluzione, invece, non è una storia di aumento di complessità
di strutture che divengono così sempre migliori. Tutte le specie viventi sono egualmente
evolute, secondo linee evolutive differenti, e l’intelligenza è certamente una funzione che si presenta
nell'universo animale attraverso una molteplicità di attitudini.
Ma
l’evoluzione non è solo biologica, ma anche culturale, per cui continuiamo ad
evolverci mediante una reciproca interazione anche con gli altri animali. Ecco perché Roberto ed i suoi incontri mi confortano
in quella che è l’intuizione innata che mi porta a rapportarmi con gli animali
non come se la nostra intelligenza fosse “fuori dalla natura”, bensì nella
consapevolezza che tutte le nostre intelligenze si trovino “dentro la natura” e
siano strettamente interconnesse.
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