Come noto, ogni anno muoiono migliaia di animali, selvatici e domestici, a casa di avvelenamento. Nei territori non urbanizzati sono spesso i bracconieri a disseminare esche avvelenate, al fine di eliminare “potenziali concorrenti”(lupi, volpi, ecc.), oppure i contadini a ricorrere a tale pratica per uccidere animali ritenuti dannosi per l’agricoltura, mentre nei centri urbanizzati questo fenomeno, in allarmante espansione, è finalizzato a chiudere beghe condominiali o tra vicini confinanti, causate ad esempio dal disturbo provocato dall’abbaiare di cani, oppure trova la sua radice in atti di teppismo o bullismo mirati a porre rimedio, ad esempio, alla presenza di colonie feline ritenute fastidiose.
Il mio intervento è finalizzato ad esaminare gli aspetti legali di tale fenomeno, sotto il profilo delle responsabilità penali e civili di chi pone in essere tali condotte, e della conseguente risposta sanzionatoria dell’ordinamento.
Il mio intervento è finalizzato ad esaminare gli aspetti legali di tale fenomeno, sotto il profilo delle responsabilità penali e civili di chi pone in essere tali condotte, e della conseguente risposta sanzionatoria dell’ordinamento.
In rilievo vengono, innanzi tutto, gli articoli 544-bis e 544-ter del Codice penale, introdotti dalla L. 189/04, che puniscono, rispettivamente, l’uccisione ed il maltrattamento di animali.
L’art. 544-bis recita: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi”, mentre l’art. 544-ter, in tema di maltrattamento, prevede che “chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie” è punito con la reclusione da tre mesi a un anno o con la multa da 3.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi (come avviene per gli avvelenamenti non letali). L’ultimo comma di tale articolo prevede che la pena è aumentata della metà se dai predetti fatti deriva la morte dell'animale.
L’introduzione dei predetti articoli (544 - bis e 544 - ter) nel codice penale è stata salutata, e non a torto, come una svolta rispetto al previgente impianto normativo, che faceva rientrare qualsiasi condotta in danno degli animali nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 727 c.p., il quale puniva tali condotte con una modesta ammenda, dando all’imputato la facoltà di scegliere se accedere all’oblazione o addirittura tentare di arrivare alla prescrizione del procedimento, molto breve e dunque facilmente raggiungibile. I casi di condanna, pertanto, sono stati davvero pochi, e quasi sempre determinati - per quanto riguarda gli avvelenamenti - dalla mancata opposizione al decreto penale di condanna. Quest’ultimo strumento giuridico, pur avendo garantito una punizione dei colpevoli, non ha mai avuto una funzione realmente repressiva delle predette condotte, a causa della modestissima entità delle pene pecuniarie comminate.
Sempre nel codice penale vi sono altri articoli che vengono in rilievo ai fini della nostra disamina, quali l’art. 638 e 674.
L’art. 638, sotto la rubrica “Uccisione o danneggiamento di animali altrui”, sancisce che chiunque, senza necessità, uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri (ed è questo l’elemento caratterizzante della previsione normativa), è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, ed a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 309. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni, e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria.
L’art. 674, invece, sotto la rubrica “Getto pericoloso di cose”, stabilisce che chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a euro 206.
Ed invero, lasciare esche o bocconi avvelenati costituisce un pericolo non solo per gli animali, ma anche, per esempio, per i bambini che possono mettersi le mani in bocca dopo aver toccato tali prodotti.
E ciò a sottacere il fatto che le esche avvelenate sono pericolose anche per l’ambiente, visto che le sostanze velenose, come ad esempio la stricnina, rimangono a lungo nei tessuti delle vittime, potendo determinare anche l’inquinamento del suolo e falde acquifere.
Per questo può venire in rilievo, oltre a specifiche disposizioni del Testo Unico Ambientale, che non è possibile approfondire in questa sede, anche l’art. 440 del codice penale, il quale punisce con la reclusione da tre a dieci anni “chiunque corrompe o adultera acque o sostanze destinate all'alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, rendendole pericolose alla salute pubblica”.
Per tornare allo specifico argomento dell’avvelenamento di animali, vengono in rilievo, invece, ulteriori norme, non codicistiche, date dalla L.157/92 (“Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”, in gergo conosciuta come “Legge sulla caccia”), la quale, all’articolo 21, lettera u), stabilisce che è vietato a chiunque “usare esche o bocconi avvelenati, vischio o altre sostanze adesive, trappole, reti, tagliole, lacci, archetti o congegni similari”e dal Testo Unico delle Leggi Sanitarie (Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265), che all’art. 146 proibisce e punisce la distribuzione di sostanze velenose.
Sull’argomento è intervenuto recentemente il Ministero della Salute emanando l’Ordinanza contingibile e urgente concernente norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o bocconi avvelenati (Gazzetta Ufficiale n.13/09), con il precipuo scopo di combattere “il dilagare del fenomeno di uccisione di animali mediante l'utilizzo di esche o bocconi avvelenati sia in ambito urbano, che extraurbano nonché le sempre più frequenti morti tra la fauna selvatica per ingestione di sostanze tossiche abbandonate volontariamente nell'ambiente, con conseguenti rilevanti danni al patrimonio faunistico selvatico e in particolare alle specie in via di estinzione”.
All’art. 1 della predetta ordinanza, viene stabilito che “è vietato a chiunque utilizzare in modo improprio, preparare, miscelare e abbandonare esche e bocconi avvelenati o contenenti sostanze tossiche o nocive, compresi vetri, plastiche e metalli; è vietato, altresì, la detenzione, l'utilizzo e l'abbandono di qualsiasi alimento preparato in maniera tale da poter causare intossicazioni o lesioni al soggetto che lo ingerisce”. E’ impostante sottolineare, dunque, che il provvedimento ministeriale si riferisce non solo alle esche o ai cosiddetti bocconi avvelenati, ma anche alle preparazioni contenenti sostanze velenose o nocive, compresi vetri, plastiche e metalli.
L’ordinanza stabilisce che il proprietario o il responsabile dell’animale deceduto a causa di esche o bocconi avvelenati sia tenuto a segnalare l’accadimento alle autorità competenti. Tale disposizione è finalizzata, con ogni evidenza, a rendere censibile ogni caso di avvelenamento, al fine di sopperire all’attuale carenza di dati, che rende difficile persino effettuare delle statistiche sulla reale portata del fenomeno.
Parimenti è tenuto alla segnalazione il medico veterinario che, sulla base di una sintomatologia conclamata, emette una diagnosi di sospetto avvelenamento oppure viene comunque a conoscenza di un caso di avvelenamento di un esemplare di specie animale domestica o selvatica. In questo caso, il medico veterinario deve darne immediata comunicazione al sindaco e al Servizio veterinario della Azienda sanitaria locale territorialmente competente.
In caso di decesso dell'animale, il medico veterinario deve inoltre inviare le spoglie e ogni altro campione utile all'identificazione del veleno o della sostanza che ne ha provocato la morte all'Istituto zooprofilattico sperimentale competente per territorio, accompagnati da referto anamnestico, al fine di indirizzare la ricerca analitica.
Gli Istituti zooprofilattici sperimentali, a loro volta, devono sottoporre ad autopsia l'animale ed effettuare le opportune analisi sui campioni pervenuti o prelevati in sede autoptica e comunicarne gli esiti al medico veterinario che ha inviato i campioni, al Servizio veterinario dell'Azienda sanitaria locale territorialmente competente e, qualora positivo, all'Autorità giudiziaria.
Anche il sindaco, a seguito di segnalazione di avvelenamento, deve dare immediate disposizioni per l'apertura di una indagine, da effettuare in collaborazione con le altre autorità competenti, e nel contempo deve attivare tutte le iniziative necessarie alla bonifica dell'area interessata, che nel frattempo deve essere segnalata con appositi cartelli. Una cosa simile dovrebbe essere prevista per interdire l’attività venatoria nelle zone colpite da fenomeni di avvelenamento.
L’ordinanza ministeriale in parola prevede, inoltre, che presso ciascuna Prefettura debba essere istituito un «Tavolo di coordinamento» per la gestione degli interventi da effettuare e per il monitoraggio del fenomeno, costituito da un rappresentante della provincia, dai sindaci delle aree interessate e da rappresentanti dei Servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali, del Corpo forestale dello Stato, degli Istituti zooprofilattici sperimentali competenti per territorio, delle Guardie zoofile e delle Forze di polizia locali.
L’ordinanza non indica quali debbano essere i compiti specifici del predetto “Tavolo di Coordinamento”. Tra questi certamente si deve ricomprendere il mappaggio delle zone a rischio, in modo da studiare accuratamente il fenomeno per individuare responsabilità e possibili interventi.
Un altro compito del predetto Tavolo deve essere quello di coordinare le attività di informazione dei cittadini, a mezzo degli opportuni mezzi di comunicazione (internet, televisione, radio e stampa) sui pericoli e sui comportamenti da tenere, anche in ordine alla presentazione della denuncia. Si può pensare anche a percorsi didattici nelle scuole, anche attraverso di Centri di Educazione Ambientale, per favorire rapporti rispettosi nei confronti degli animali.
I percorsi formativi sono essenziali al fine di combattere il fenomeno degli avvelenamenti, e ciò vale anche per i soggetti deputati alla vigilanza (il Corpo Forestale dello Stato, le polizie municipali e provinciali, la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza), che devono essere adeguatamente preparati, affinchè si possa giungere alla immediata eliminazione del pericolo, ed eventualmente alla punizione dei colpevoli.
La difficoltà di cogliere in flagrante l’autore dell’avvelenamento è un dato di fatto, ed è per questo che risultano importanti le statistiche, i censimenti e le mappature di cui si è parlato, perché nelle zone più colpite occorre evidentemente intensificare le indagini.
Ma poi occorre professionalità, lo si ribadisce, e non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche da parte della magistratura inquirente. La L. 189/04 prevede, ad esempio, che i pubblici ministeri possano delegare dei compiti in ordine alla tutela degli animali d’affezione anche alle guardie zoofile, ma sono certo che la maggior parte dei pubblici ministeri non ha mai neppure sentito parlare di tali guardie.
E, dunque, quando l’istituto zooprofilattico avverte la magistratura a seguito di un caso di avvelenamento accertato, occorre disporre immediatamente delle perizie, eventualmente anche a mezzo di incidenti probatori, affinchè gli esami effettuati abbiano valenza probatoria, e consentano di punire il colpevole, se questo è stato individuato.
Per questo io penso che vadano organizzati incontri di studio, rivolti agli operatori del diritto, affinchè si prenda conoscenza dell’importanza dell’applicazione delle normative sopra citate, che spesso vengono considerate di scarsissima importanza.
Gli autori degli avvelenamenti, oltre a rispondere sul piano penale, devono risarcire i danni, ed è proprio al risarcimento del danno che è finalizzata la costituzione di parte civile nel processo penale.
Ad avere il diritto di costituirsi parte civile sono non solo i proprietari degli animali avvelenati e le associazioni protezioniste, ma anche soggetti pubblici (Stato, Regione, Province, Comuni, Enti autonomi, Parchi Nazionali ecc.), in quanto, per i motivi che si sono sopra esposti, dietro l’avvelenamento di animali vi è un “danno ambientale”, e cioè l’offesa ai valori naturali e culturali che sono, ovviamente di pubblico interesse.
L’art. 544-bis recita: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi”, mentre l’art. 544-ter, in tema di maltrattamento, prevede che “chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie” è punito con la reclusione da tre mesi a un anno o con la multa da 3.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi (come avviene per gli avvelenamenti non letali). L’ultimo comma di tale articolo prevede che la pena è aumentata della metà se dai predetti fatti deriva la morte dell'animale.
L’introduzione dei predetti articoli (544 - bis e 544 - ter) nel codice penale è stata salutata, e non a torto, come una svolta rispetto al previgente impianto normativo, che faceva rientrare qualsiasi condotta in danno degli animali nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 727 c.p., il quale puniva tali condotte con una modesta ammenda, dando all’imputato la facoltà di scegliere se accedere all’oblazione o addirittura tentare di arrivare alla prescrizione del procedimento, molto breve e dunque facilmente raggiungibile. I casi di condanna, pertanto, sono stati davvero pochi, e quasi sempre determinati - per quanto riguarda gli avvelenamenti - dalla mancata opposizione al decreto penale di condanna. Quest’ultimo strumento giuridico, pur avendo garantito una punizione dei colpevoli, non ha mai avuto una funzione realmente repressiva delle predette condotte, a causa della modestissima entità delle pene pecuniarie comminate.
Sempre nel codice penale vi sono altri articoli che vengono in rilievo ai fini della nostra disamina, quali l’art. 638 e 674.
L’art. 638, sotto la rubrica “Uccisione o danneggiamento di animali altrui”, sancisce che chiunque, senza necessità, uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri (ed è questo l’elemento caratterizzante della previsione normativa), è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, ed a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 309. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni, e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria.
L’art. 674, invece, sotto la rubrica “Getto pericoloso di cose”, stabilisce che chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a euro 206.
Ed invero, lasciare esche o bocconi avvelenati costituisce un pericolo non solo per gli animali, ma anche, per esempio, per i bambini che possono mettersi le mani in bocca dopo aver toccato tali prodotti.
E ciò a sottacere il fatto che le esche avvelenate sono pericolose anche per l’ambiente, visto che le sostanze velenose, come ad esempio la stricnina, rimangono a lungo nei tessuti delle vittime, potendo determinare anche l’inquinamento del suolo e falde acquifere.
Per questo può venire in rilievo, oltre a specifiche disposizioni del Testo Unico Ambientale, che non è possibile approfondire in questa sede, anche l’art. 440 del codice penale, il quale punisce con la reclusione da tre a dieci anni “chiunque corrompe o adultera acque o sostanze destinate all'alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, rendendole pericolose alla salute pubblica”.
Per tornare allo specifico argomento dell’avvelenamento di animali, vengono in rilievo, invece, ulteriori norme, non codicistiche, date dalla L.157/92 (“Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”, in gergo conosciuta come “Legge sulla caccia”), la quale, all’articolo 21, lettera u), stabilisce che è vietato a chiunque “usare esche o bocconi avvelenati, vischio o altre sostanze adesive, trappole, reti, tagliole, lacci, archetti o congegni similari”e dal Testo Unico delle Leggi Sanitarie (Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265), che all’art. 146 proibisce e punisce la distribuzione di sostanze velenose.
Sull’argomento è intervenuto recentemente il Ministero della Salute emanando l’Ordinanza contingibile e urgente concernente norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o bocconi avvelenati (Gazzetta Ufficiale n.13/09), con il precipuo scopo di combattere “il dilagare del fenomeno di uccisione di animali mediante l'utilizzo di esche o bocconi avvelenati sia in ambito urbano, che extraurbano nonché le sempre più frequenti morti tra la fauna selvatica per ingestione di sostanze tossiche abbandonate volontariamente nell'ambiente, con conseguenti rilevanti danni al patrimonio faunistico selvatico e in particolare alle specie in via di estinzione”.
All’art. 1 della predetta ordinanza, viene stabilito che “è vietato a chiunque utilizzare in modo improprio, preparare, miscelare e abbandonare esche e bocconi avvelenati o contenenti sostanze tossiche o nocive, compresi vetri, plastiche e metalli; è vietato, altresì, la detenzione, l'utilizzo e l'abbandono di qualsiasi alimento preparato in maniera tale da poter causare intossicazioni o lesioni al soggetto che lo ingerisce”. E’ impostante sottolineare, dunque, che il provvedimento ministeriale si riferisce non solo alle esche o ai cosiddetti bocconi avvelenati, ma anche alle preparazioni contenenti sostanze velenose o nocive, compresi vetri, plastiche e metalli.
L’ordinanza stabilisce che il proprietario o il responsabile dell’animale deceduto a causa di esche o bocconi avvelenati sia tenuto a segnalare l’accadimento alle autorità competenti. Tale disposizione è finalizzata, con ogni evidenza, a rendere censibile ogni caso di avvelenamento, al fine di sopperire all’attuale carenza di dati, che rende difficile persino effettuare delle statistiche sulla reale portata del fenomeno.
Parimenti è tenuto alla segnalazione il medico veterinario che, sulla base di una sintomatologia conclamata, emette una diagnosi di sospetto avvelenamento oppure viene comunque a conoscenza di un caso di avvelenamento di un esemplare di specie animale domestica o selvatica. In questo caso, il medico veterinario deve darne immediata comunicazione al sindaco e al Servizio veterinario della Azienda sanitaria locale territorialmente competente.
In caso di decesso dell'animale, il medico veterinario deve inoltre inviare le spoglie e ogni altro campione utile all'identificazione del veleno o della sostanza che ne ha provocato la morte all'Istituto zooprofilattico sperimentale competente per territorio, accompagnati da referto anamnestico, al fine di indirizzare la ricerca analitica.
Gli Istituti zooprofilattici sperimentali, a loro volta, devono sottoporre ad autopsia l'animale ed effettuare le opportune analisi sui campioni pervenuti o prelevati in sede autoptica e comunicarne gli esiti al medico veterinario che ha inviato i campioni, al Servizio veterinario dell'Azienda sanitaria locale territorialmente competente e, qualora positivo, all'Autorità giudiziaria.
Anche il sindaco, a seguito di segnalazione di avvelenamento, deve dare immediate disposizioni per l'apertura di una indagine, da effettuare in collaborazione con le altre autorità competenti, e nel contempo deve attivare tutte le iniziative necessarie alla bonifica dell'area interessata, che nel frattempo deve essere segnalata con appositi cartelli. Una cosa simile dovrebbe essere prevista per interdire l’attività venatoria nelle zone colpite da fenomeni di avvelenamento.
L’ordinanza ministeriale in parola prevede, inoltre, che presso ciascuna Prefettura debba essere istituito un «Tavolo di coordinamento» per la gestione degli interventi da effettuare e per il monitoraggio del fenomeno, costituito da un rappresentante della provincia, dai sindaci delle aree interessate e da rappresentanti dei Servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali, del Corpo forestale dello Stato, degli Istituti zooprofilattici sperimentali competenti per territorio, delle Guardie zoofile e delle Forze di polizia locali.
L’ordinanza non indica quali debbano essere i compiti specifici del predetto “Tavolo di Coordinamento”. Tra questi certamente si deve ricomprendere il mappaggio delle zone a rischio, in modo da studiare accuratamente il fenomeno per individuare responsabilità e possibili interventi.
Un altro compito del predetto Tavolo deve essere quello di coordinare le attività di informazione dei cittadini, a mezzo degli opportuni mezzi di comunicazione (internet, televisione, radio e stampa) sui pericoli e sui comportamenti da tenere, anche in ordine alla presentazione della denuncia. Si può pensare anche a percorsi didattici nelle scuole, anche attraverso di Centri di Educazione Ambientale, per favorire rapporti rispettosi nei confronti degli animali.
I percorsi formativi sono essenziali al fine di combattere il fenomeno degli avvelenamenti, e ciò vale anche per i soggetti deputati alla vigilanza (il Corpo Forestale dello Stato, le polizie municipali e provinciali, la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza), che devono essere adeguatamente preparati, affinchè si possa giungere alla immediata eliminazione del pericolo, ed eventualmente alla punizione dei colpevoli.
La difficoltà di cogliere in flagrante l’autore dell’avvelenamento è un dato di fatto, ed è per questo che risultano importanti le statistiche, i censimenti e le mappature di cui si è parlato, perché nelle zone più colpite occorre evidentemente intensificare le indagini.
Ma poi occorre professionalità, lo si ribadisce, e non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche da parte della magistratura inquirente. La L. 189/04 prevede, ad esempio, che i pubblici ministeri possano delegare dei compiti in ordine alla tutela degli animali d’affezione anche alle guardie zoofile, ma sono certo che la maggior parte dei pubblici ministeri non ha mai neppure sentito parlare di tali guardie.
E, dunque, quando l’istituto zooprofilattico avverte la magistratura a seguito di un caso di avvelenamento accertato, occorre disporre immediatamente delle perizie, eventualmente anche a mezzo di incidenti probatori, affinchè gli esami effettuati abbiano valenza probatoria, e consentano di punire il colpevole, se questo è stato individuato.
Per questo io penso che vadano organizzati incontri di studio, rivolti agli operatori del diritto, affinchè si prenda conoscenza dell’importanza dell’applicazione delle normative sopra citate, che spesso vengono considerate di scarsissima importanza.
Gli autori degli avvelenamenti, oltre a rispondere sul piano penale, devono risarcire i danni, ed è proprio al risarcimento del danno che è finalizzata la costituzione di parte civile nel processo penale.
Ad avere il diritto di costituirsi parte civile sono non solo i proprietari degli animali avvelenati e le associazioni protezioniste, ma anche soggetti pubblici (Stato, Regione, Province, Comuni, Enti autonomi, Parchi Nazionali ecc.), in quanto, per i motivi che si sono sopra esposti, dietro l’avvelenamento di animali vi è un “danno ambientale”, e cioè l’offesa ai valori naturali e culturali che sono, ovviamente di pubblico interesse.
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