Io vorrei innanzi tutto ringraziare Marcello Cingolani per l’invito a questa presentazione, per il suo sostegno alla Lega Nazionale per la Difesa del Cane, ma soprattutto per avermi fatto conoscere questo libricino di De Amicis, intitolato “Il mio ultimo amico”, con affettuoso riferimento al cagnolino Dick, l’unico ad essere rimasto accanto allo scrittore in un momento difficile della sua vita, dopo la morte della madre, il suicidio del figlio Furio e la separazione dalla moglie.
Per me è stata davvero una scoperta, perché De Amicis è uno scrittore estremamente lontano dal mondo degli animali, tanto che il Prof. Pino Boero, che insegna Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, individua una vera e propria “linea De Amicis”, che contrappone alla “linea Collodi”. Quest’ultimo riempie “Le avventure di Pinocchio” di animali che diventano protagonisti del palcoscenico della vita (il gatto e la volpe, il giudice gorilla, il ciuchino, il grillo, il pesce-cane), mentre De Amicis generalmente sminuisce il ruolo degli animali fino alla banalità. Nel libro “Cuore” si ripetono frasi del tipo “pareva un cane arrabbiato”; “in classe non c’è un cane”; Franti viene scacciato “come un cane”. E Se viene nominato il gatto, è solo perché Coretti aveva il berretto di pelo di gatto.
Ecco, questa è la “linea De Amicis”. Linea che ha vinto su quella di Collodi, nonostante il fatto che la letteratura per ragazzi, oltre ad essere uno specchio del tempo contemporaneo, dovrebbe essere anche quella in grado di anticipare nuove fasi della storia e di vincere tutti i tipi di pregiudizi, compresi quelli nei confronti degli animali.
Ma in questo libricino scopriamo un De Amicis diverso. Un De Amicis che non è quello del libro “Cuore”, con il quale viene associato immediatamente, come dice giustamente Danilo Mainardi nella prefazione.
Scopriamo un De Amicis che non si vergogna di confessare che nelle notti insonni, quando è perseguitato dai pensieri del passato e di quelli “del presente e dell’avvenire”, trova rifugio proprio pensando al suo cagnolino. Dice De Amicis, rivolgendosi al suo cane: “Nel pensiero di te trovo il rifugio, e tu mi pari la vista dagli spettri umani, e trattenendomi con la tua immagine, dimentico e mi racqueto”. Questa è una frase con la quale De Amicis sembra addirittura volersi collocare ben oltre quel fanatismo di cui a volte vengono tacciati i sostenitori dei diritti degli animali, rei di volere “più bene agli animali che agli uomini”.
C’è un altro passaggio che merita di essere sottolineato. Scrive De Amicis: “Io dimentico quello che gli ho tolto, quando penso di avergli fatto un beneficio dandogli ciò che gli ho dato. Povero Dick! No, io non ti benefico; non faccio che darti quello che ti vien di diritto. Io ti debbo bene l’alimento, poiché ti impedisco d’andartelo a cercare per il mondo, come fanno i tuoi fratelli senza padrone. Ti debbo bene delle cure e delle carezze, poiché t’ho chiuso in una prigione, e t’ho imposto un orario, una disciplina, un collare, una museruola, e mille soggezioni e riguardi che riducono la tua vita come quella d’un collegiale”
Ecco dunque che scopriamo una inaspettata sensibilità etologica. De Amicis comprende quali sono le reali esigenze del cane, e considera il cibo e le cure un indennizzo per tutto ciò di cui il cane è stato privato. E non è solo una sensibilità etologica. E’ una vera e propria empatia tra lo scrittore e il suo cane. Uno slancio che porta De Amicis a dire, rivolgendosi al suo cane. “Se sapessi quanto m’affatica il pensiero per misurare la distanza che corre fra di noi, e scoprire la tua riposta natura, e quella dei legami che ci congiungono e delle barriere che ci separano”. Ecco, qui non c’è trucco e non c’è inganno: lo scrittore guarda il cane e coglie la contiguità tra le loro vite.
Inaspettatamente, proprio in De Amicis, quello della linea da contrapporre alla linea Collodi, si infrange quel tabù di una cultura millenaria, stratificatasi ad opera del pensiero dominante della nostra storia filosofico - religiosa, che ha voluto costruire una barriera tra noi e gli altri animali.
Questa barriera, come tante altre che costruiamo nei confronti di chi ritieniamo “diversi”, è in realtà fragile. E difatti, ogni qualvolta si verifichi che i rapporti di forza si vengono a ribaltare, siamo subito pronti ad abbatterle, queste barriere. Faccio un esempio, prestando attenzione al cosiddetto fenomeno del dumping, che interessa tanto gli economisti dei paesi occidentali: quando si tratta di andare ad impiantare le nostre aziende nei paesi sottosviluppati, che offrono mano d’opera a prezzi ridicoli, lo si fa in nome dei principi del liberismo. E’ giusto andare dove il lavoro costa poco, perché le leggi del mercato ci spingono verso l’ottimizzazione del rapporto costi/benefici. Quando accade che “loro”, imparato il know how, e trovati i mezzi per avviare le loro imprese, mettono sul mercato prodotti che ci fanno concorrenza a prezzi più bassi, allora quelle leggi di mercato che prima andavano bene, non vanno bene più. Si comincia ad evidenziare il mancato rispetto degli standard relativi ai diritti dei lavoratori, i quali possono produrre quei beni a quei prezzi in quanto sottopagati e privi delle garanzie che abbiamo nei paesi avanzati, e quindi si comincia a parlare del dumping e della necessità di introdurre strumenti protezionistici, mediante dei dazi sull’importazione di quei prodotti. Il che significa alterare il libero mercato, e rinnegarne i principi. Perché questo accade? Perché succede che “noi” stiamo diventando “loro”, e quello che prima veniva professata come regola generale ora non va più bene, perché non va bene per “noi”.
Noi siamo i sostenitori di questa battaglia culturale, in difesa degli ultimi. Di coloro che oggi sono macellati nei campi di concentramento degli animali destinati ad uso allevamento o pelletteria, di coloro che sono utilizzati a milioni nei laboratori per test di nessuna rilevanza scientifica. E da oggi sappiamo che anche De Amicis avrebbe sostenuto questa battaglia.
Per me è stata davvero una scoperta, perché De Amicis è uno scrittore estremamente lontano dal mondo degli animali, tanto che il Prof. Pino Boero, che insegna Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, individua una vera e propria “linea De Amicis”, che contrappone alla “linea Collodi”. Quest’ultimo riempie “Le avventure di Pinocchio” di animali che diventano protagonisti del palcoscenico della vita (il gatto e la volpe, il giudice gorilla, il ciuchino, il grillo, il pesce-cane), mentre De Amicis generalmente sminuisce il ruolo degli animali fino alla banalità. Nel libro “Cuore” si ripetono frasi del tipo “pareva un cane arrabbiato”; “in classe non c’è un cane”; Franti viene scacciato “come un cane”. E Se viene nominato il gatto, è solo perché Coretti aveva il berretto di pelo di gatto.
Ecco, questa è la “linea De Amicis”. Linea che ha vinto su quella di Collodi, nonostante il fatto che la letteratura per ragazzi, oltre ad essere uno specchio del tempo contemporaneo, dovrebbe essere anche quella in grado di anticipare nuove fasi della storia e di vincere tutti i tipi di pregiudizi, compresi quelli nei confronti degli animali.
Ma in questo libricino scopriamo un De Amicis diverso. Un De Amicis che non è quello del libro “Cuore”, con il quale viene associato immediatamente, come dice giustamente Danilo Mainardi nella prefazione.
Scopriamo un De Amicis che non si vergogna di confessare che nelle notti insonni, quando è perseguitato dai pensieri del passato e di quelli “del presente e dell’avvenire”, trova rifugio proprio pensando al suo cagnolino. Dice De Amicis, rivolgendosi al suo cane: “Nel pensiero di te trovo il rifugio, e tu mi pari la vista dagli spettri umani, e trattenendomi con la tua immagine, dimentico e mi racqueto”. Questa è una frase con la quale De Amicis sembra addirittura volersi collocare ben oltre quel fanatismo di cui a volte vengono tacciati i sostenitori dei diritti degli animali, rei di volere “più bene agli animali che agli uomini”.
C’è un altro passaggio che merita di essere sottolineato. Scrive De Amicis: “Io dimentico quello che gli ho tolto, quando penso di avergli fatto un beneficio dandogli ciò che gli ho dato. Povero Dick! No, io non ti benefico; non faccio che darti quello che ti vien di diritto. Io ti debbo bene l’alimento, poiché ti impedisco d’andartelo a cercare per il mondo, come fanno i tuoi fratelli senza padrone. Ti debbo bene delle cure e delle carezze, poiché t’ho chiuso in una prigione, e t’ho imposto un orario, una disciplina, un collare, una museruola, e mille soggezioni e riguardi che riducono la tua vita come quella d’un collegiale”
Ecco dunque che scopriamo una inaspettata sensibilità etologica. De Amicis comprende quali sono le reali esigenze del cane, e considera il cibo e le cure un indennizzo per tutto ciò di cui il cane è stato privato. E non è solo una sensibilità etologica. E’ una vera e propria empatia tra lo scrittore e il suo cane. Uno slancio che porta De Amicis a dire, rivolgendosi al suo cane. “Se sapessi quanto m’affatica il pensiero per misurare la distanza che corre fra di noi, e scoprire la tua riposta natura, e quella dei legami che ci congiungono e delle barriere che ci separano”. Ecco, qui non c’è trucco e non c’è inganno: lo scrittore guarda il cane e coglie la contiguità tra le loro vite.
Inaspettatamente, proprio in De Amicis, quello della linea da contrapporre alla linea Collodi, si infrange quel tabù di una cultura millenaria, stratificatasi ad opera del pensiero dominante della nostra storia filosofico - religiosa, che ha voluto costruire una barriera tra noi e gli altri animali.
Questa barriera, come tante altre che costruiamo nei confronti di chi ritieniamo “diversi”, è in realtà fragile. E difatti, ogni qualvolta si verifichi che i rapporti di forza si vengono a ribaltare, siamo subito pronti ad abbatterle, queste barriere. Faccio un esempio, prestando attenzione al cosiddetto fenomeno del dumping, che interessa tanto gli economisti dei paesi occidentali: quando si tratta di andare ad impiantare le nostre aziende nei paesi sottosviluppati, che offrono mano d’opera a prezzi ridicoli, lo si fa in nome dei principi del liberismo. E’ giusto andare dove il lavoro costa poco, perché le leggi del mercato ci spingono verso l’ottimizzazione del rapporto costi/benefici. Quando accade che “loro”, imparato il know how, e trovati i mezzi per avviare le loro imprese, mettono sul mercato prodotti che ci fanno concorrenza a prezzi più bassi, allora quelle leggi di mercato che prima andavano bene, non vanno bene più. Si comincia ad evidenziare il mancato rispetto degli standard relativi ai diritti dei lavoratori, i quali possono produrre quei beni a quei prezzi in quanto sottopagati e privi delle garanzie che abbiamo nei paesi avanzati, e quindi si comincia a parlare del dumping e della necessità di introdurre strumenti protezionistici, mediante dei dazi sull’importazione di quei prodotti. Il che significa alterare il libero mercato, e rinnegarne i principi. Perché questo accade? Perché succede che “noi” stiamo diventando “loro”, e quello che prima veniva professata come regola generale ora non va più bene, perché non va bene per “noi”.
Noi siamo i sostenitori di questa battaglia culturale, in difesa degli ultimi. Di coloro che oggi sono macellati nei campi di concentramento degli animali destinati ad uso allevamento o pelletteria, di coloro che sono utilizzati a milioni nei laboratori per test di nessuna rilevanza scientifica. E da oggi sappiamo che anche De Amicis avrebbe sostenuto questa battaglia.
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