domenica 21 novembre 2010

Presentazione del libro "Vingança" - Festival delle Letterature dell'Adriatico - Pescara, 17 novembre 2010 - Intervista di Alessio Romano

D: Parlami di Pescara come luogo narrativo.

R: Guarda, secondo me Pescara è un luogo narrativo eccezionale. Ha tutto per essere una location dove ambientare un romanzo giallo.
Io, che sono di Francavilla, sono cresciuto con il mito di Pescara. Quando frequentavo le scuole medie, ho respirato l’aria della contrapposizione Pescara – Chieti. Quello era il periodo in cui si cercava di ostentare la propria pescaresità. Quando si prendeva l’uno, che aveva il capolinea qui vicino, alla stazione centrale, lo si raccontava ai compagni: “Sai, ieri sono andato a Pac Mania, a Piazza Salotto”… E ci si vergognava di essere in provincia di Chieti, ed anche della targa delle macchine dei nostri genitori, che all’epoca erano suddivise per provincia. Le nostre macchine non erano targate PE, ma CH, e questo per noi francavillesi che ambivamo a sentirci cittadini pescaresi, era una un’onta. Poi, per fortuna, quelle targhe le hanno abolite… Oh, spero che non ci siano troppi chietini qui dentro.
Comunque, per ritornare alla domanda, io ho riversato nel romanzo il mio legame con la città. Da corso Manthonè al porto turistico, dalla zona dei colli fino al mercato ittico, tanti sono i luoghi della città che diventano teatro degli avvenimenti narrati nel libro.
Io spero che Pescara diventi sempre di più un centro culturale che non viva solo del ricordo di D’Annunzio, e che diventi sempre di più, di conseguenza, essa stessa un luogo narrativo.

D: Qual è il tasso di autobiografia presente nel libro?

R: L’autobiografia ovviamente è inevitabile, credo che non esista al mondo un romanzo che non sia in qualche modo autobiografico. Per quanto riguarda questo libro, beh, penso di avere esagerato. Il ragazzo di mia cugina, uno dei primi che lo ha letto, mi ha detto: “Chi ti conosce non è in grado di capire dove finisca l’autobiografia e dove inizi la finzione, e viceversa”.
Le cose, in realtà, sono andate in questo modo.
Tre anni fa ho pubblicato un libro di poesie, “Riva Azzurra”, la cui prefazione è stata scritta da Enzo Verrengia, che è un nostro amico comune. Io già lo conoscevo, ma non avevo con lui un vero e proprio rapporto di amicizia. Questo rapporto che è nato proprio in quella circostanza, e poi ho scoperto di condividere con lui la passione per la letteratura, il cinema e i fumetti.
Qualche sera dopo la presentazione di quel libro, ci trovammo, io ed Enzo, in un pub, e lui mi disse: “Michè, senti, ma visto che tu sei un avvocato penalista e conosci i meccanismi del processo e delle indagini, perché non scrivi un romanzo giallo?”
E lì io ebbi una intuizione, perché quella proposta arrivò in un periodo particolarmente intenso della mia vita, visto che avevo appena conosciuto in Brasile quella ragazza che dopo qualche mese sarebbe diventata mia moglie, Léia.
Ecco allora che ho pensato di intrecciare la trama classica di un giallo, scritto secondo i parametri usati da Agatha Christie (con l’indicazione di una serie di sospettati e lo svelamento, alla fine, dell’assassino), con la storia di due persone che appartengono a due mondi lontanissimi, un avvocato abruzzese e una psicologa brasiliana, che si conoscono e si innamorano. Ovviamente, poiché non mi piacciono i sentimentalismi, la storia d’amore è appena tratteggiata, e fa da sfondo al romanzo, anche se ne è stata la fonte di ispirazione.
Ecco dunque che l’avvocato Pace vola in Brasile sulle tracce dell’assassino, ma anziché trovare lui, trova la sua anima gemella. Ed ecco, quindi, che l’autobiografia è presente nel libro, che è una trasfigurazione in forma di romanzo giallo del modo in cui io e mia moglie ci siamo conosciuti.

D: A questo punto parlami del Brasile.

R: Ecco, questa domanda è importante, perché l’avvocato Pace non trova solo questa ragazza meravigliosa, ma scopre un intero mondo. Io non racconto il Brasile che tutti siamo abituati ad immaginare, quello di Rio de Janeiro e di Bahia, del samba e del carnevale. I luoghi teatro di azione sono una piccola cittadina termale, chiamata Caldas Novas, e poi Goiania, che è la capitale dello stato di Goias, al centro del Brasile, una metropoli lontana dal mare. Racconto scene di vita domestica, come il natale brasiliano, molto simile al nostro, albero di natale compreso, a parte la differenza di temperatura. Ma soprattutto racconto una dimensione del brasile, che mi ha molto colpito, che è quella religiosa. In Brasile la religione fa parte della vita quotidiana di tutti. Si può essere cattolici, protestanti, animisti, spiritisti. Il sincretismo, cioè la fusione di più religioni, è un fenomeno molto diffuso.
Tra queste tante religioni, quella che mi ha colpito e di cui parlo nel libro è lo spiritismo, un movimento fondato dal pedagogista e filosofo francese Allan Kardec, secondo cui gli uomini possono sviluppare le capacità medianiche per mettersi in contatto con gli spiriti dei defunti, come accade nel film Ghost con Patrick Swayze e Demi Moore.
In realtà lo spiritismo, come dottrina filosofico-religiosa derivante dagli insegnamenti degli spiriti, predica la carità, l'umiltà, la solidarietà, la fratellanza universale per il progresso morale dell'umanità, in contrapposizione all'egoismo, all'orgoglio e al materialismo, richiamandosi agli insegnamenti di Gesù Cristo, al quale gli spiritisti sono devoti. E infatti l’avvocato Pace rimane in qualche modo attratto da questa dottrina, essendovi forse già predisposto. Non a caso nella sua libreria, accanto alla collezione di fumetti d’epoca oggi praticamente introvabili, come la serie di Jonny Logan, ci sono libri di antroposofia, la quale è un percorso spirituale e filosofico basato sugli insegnamenti di Rudolf Steiner. Secondo i suoi sostenitori, l'antroposofia postula per l’appunto l'esistenza di un mondo spirituale obiettivo e intellettualmente comprensibile, accessibile ad una esperienza diretta per mezzo di crescita e sviluppo interiore. Molto simile, dunque, allo spiritismo brasiliano.

D: Quindi il romanzo ha anche una dimensione mistica

R: Sì, ma anche questa dimensione, così come ho detto per ciò che attiene alla storia d’amore che nasce tra Antonio Pace e la brasiliana Sofia Perez, fa da sfondo al legal thriller.

D: So che tu, come avvocato, ti occupi di diritto dell’ambiente e degli animali.

R: Sì, questo impegno è una componente importante della mia vita, anche professionale, ed inevitabilmente ho trasfuso queste tendenze animaliste anche al protagonista del libro. Solitamente i legal thriller hanno come protagonisti avvocati, investigatori, poliziotti che ancora oggi rispondono allo stereotipo di James Dean. Devono avere la cicca in bocca, mangiare cibo in scatola, e si devono alzare il bavero dell’impermeabile nelle notti gelide che percorrono girovagando tra i bar… E così, o no? L’avvocato Guerrieri di Carofiglio non va forse da solo al cinema, quando non scarica le sue energie represse contro Mister Sacco, il suo sacco da boxe?
Il mio avvocato non è un guerriero come Guerrieri, perciò l’ho chiamato Pace. L’avrei voluto chiamare Pacifico, ma a Pescara ho un mio amico collega che si chiama così, e non volevo ricevere una denuncia…
Il mio protagonista è un vegetariano non violento, che pratica lo yoga e quando va al pub con il suo amico, l’investigatore Gregorio Frezza, lo rimprovera, perché lui si riempie di birra e hamburger. Un tipo palloso? No, direi proprio di no. Semplicemente, ho voluto stare dalla parte di Hutch, e non di Starsky. Uno così, nel panorama nostrano dei nostri investigatori, non c’era, o perlomeno io non l’ho trovato. Ho provato a buttarlo io nella mischia.

D: Vediamo, allora, se hai rispettato il decalogo di Ronald Knox da tenere presente nella scrittura del giallo deduttivo!

R: Va bene, vediamo!
Il colpevole deve essere un personaggio che compare nella storia fin dalle prime pagine; il lettore non deve poter seguire nel corso della storia i pensieri del colpevole.
Ci siamo, l’ho preso.
Tutti gli interventi soprannaturali o paranormali sono esclusi dalla storia.
Beh, in un certo senso ci sono degli interventi soprannaturali, ma non hanno a che fare con la trama del giallo, bensì con il modo in cui Pace finisce per conoscere Sofia Perez. E in ogni caso, alla fine lascio ben capire che anche gli eventi cosiddetti soprannaturali in realtà sono naturalissimi.
Al massimo è consentita solo una stanza segreta o un passaggio segreto.
Non ci sono né stanze, né passaggi segreti.
Non possono essere impiegati veleni sconosciuti; inoltre non può essere impiegato uno strumento per il quale occorra una lunga spiegazione scientifica alla fine della storia.
Nulla di tutto questo. Uno degli strumenti investigativi che spiego scientificamente è il luminol, che peraltro è conosciutissimo.
Nessun evento casuale deve essere di aiuto all'investigatore e neppure lui può avere un'inspiegabile intuizione che alla fine si dimostra esatta.
Beh, forse qui ho toppato, perché Antonio Pace intuisce come erano andate le cose, anche se poi la conferma definitiva viene alla fine. Ma non posso dirvi di più.
Non ci deve essere nessun personaggio cinese nella storia. Sai, c’era stata un’inflazione di cinesi nell’epoca d’oro del giallo.
No, io mi sono limitato a un paio di rumene e una decina di brasiliani
L'investigatore non può essere il colpevole.
E ci mancherebbe altro!
L'investigatore non può scoprire alcun indizio che non sia istantaneamente presentato anche al lettore.
Non succede.
L'amico stupido dell'investigatore, il suo “dottor Watson”, non deve nascondere alcun pensiero che gli passa per la testa: la sua intelligenza deve essere impalpabile, al di sotto di quella del lettore medio.
No, qui le cose non stanno così. La spalla dell’avvocato, l’investigatore Frezza, è uno un po’ stralunato ma che alla fine ci sa fare. La sua intelligenza è superiore a quella del lettore medio, e per questo è di aiuto all’avvocato Pace.
Non ci devono essere né fratelli gemelli né sosia, a meno che non siano stati presentati correttamente fin dall'inizio della storia.
Va bene, anche questo l’ho preso!

D: A questo punto ti leggo questo scritto di Durrenmantt da “La promessa come contraltare”: "Ma nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l’aspetto del caso, ecco che subito dopo diventa destino e concatenazione; da sempre voi scrittori la verità la date in pasto alle regole drammatiche. Mandate al diavolo una buona volta queste regole. Un fatto non può “tornare” come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande. Le nostre leggi si fondano soltanto sulla probabilità, sulla statistica, non sulla causalità, si realizzano soltanto in generale, non in particolare. Il caso singolo resta fuori dal conto. I nostri metodi criminalistici sono insufficienti, e quanto più li perfezioniamo tanto più insufficienti diventano alla radice. Ma voi scrittori di questo non vi preoccupate. Non cercate di penetrare in una realtà che torna ogni volta a sfuggirci di mano, ma costruite un universo da dominare. Questo universo può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna. Mandate alla malora la perfezione se volete procedere verso le cose, verso la realtà, come si addice a degli uomini, altrimenti statevene tranquilli, e occupatevi di inutili esercizi di stile."

R: Io credo sia vero il contrario. Penso che uno se ne debba stare tranquillo a casa a guardare la televisione se non si vuole sforzare di costruire un universo da dominare. Anche quell’ubriacone di Baudelaire cercava corrispondenze nelle cose, l’ha scritto in una delle sue poesie più famose. La storia che si racconta deve avere una circolarità, le cose devono avere collegamenti, e alla fine tutto deve ridare, proprio come un conto. L’avvocato Pace legge i libri di Spinoza, che ha cercato di spiegare l’universo e persino l’etica con la geometria. Sono passati tanti secoli, ed oggi sicuramente abbiamo più dubbi che certezze, ma questo non significa che dobbiamo crogiolarci nel nostro relativismo. Io ho raccontato una storia proprio perché ho trovato in fatti e in accadimenti reali corrispondenze che mi sono piaciute, conti che tornavano. Magari mi sono sbagliato, forse è una menzogna, ma va bene così. Nel romanzo riporto una frase presa da uno dei protagonisti di Pulp Fiction, che era scampato ad una sparatoria: i proiettili che l’attentatore aveva sparato si erano conficcati nel muro, disegnando dietro di lui una sagoma umana, ma nessuno di quei proiettili lo aveva colpito. E lui dice: “Oggi ho scoperto la presenza di Dio. Non importa che sia stato veramente un miracolo. L’importante è che lo sia stato per me”. E questo è quanto.

mercoledì 10 novembre 2010

Presentazione del libro "Il mio ultimo amico" di Edmondo De Amicis (il Formichiere Edizioni, ristampa anastatica)

Io vorrei innanzi tutto ringraziare Marcello Cingolani per l’invito a questa presentazione, per il suo sostegno alla Lega Nazionale per la Difesa del Cane, ma soprattutto per avermi fatto conoscere questo libricino di De Amicis, intitolato “Il mio ultimo amico”, con affettuoso riferimento al cagnolino Dick, l’unico ad essere rimasto accanto allo scrittore in un momento difficile della sua vita, dopo la morte della madre, il suicidio del figlio Furio e la separazione dalla moglie.
Per me è stata davvero una scoperta, perché De Amicis è uno scrittore estremamente lontano dal mondo degli animali, tanto che il Prof. Pino Boero, che insegna Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, individua una vera e propria “linea De Amicis”, che contrappone alla “linea Collodi”. Quest’ultimo riempie “Le avventure di Pinocchio” di animali che diventano protagonisti del palcoscenico della vita (il gatto e la volpe, il giudice gorilla, il ciuchino, il grillo, il pesce-cane), mentre De Amicis generalmente sminuisce il ruolo degli animali fino alla banalità. Nel libro “Cuore” si ripetono frasi del tipo “pareva un cane arrabbiato”; “in classe non c’è un cane”; Franti viene scacciato “come un cane”. E Se viene nominato il gatto, è solo perché Coretti aveva il berretto di pelo di gatto.
Ecco, questa è la “linea De Amicis”. Linea che ha vinto su quella di Collodi, nonostante il fatto che la letteratura per ragazzi, oltre ad essere uno specchio del tempo contemporaneo, dovrebbe essere anche quella in grado di anticipare nuove fasi della storia e di vincere tutti i tipi di pregiudizi, compresi quelli nei confronti degli animali.
Ma in questo libricino scopriamo un De Amicis diverso. Un De Amicis che non è quello del libro “Cuore”, con il quale viene associato immediatamente, come dice giustamente Danilo Mainardi nella prefazione.
Scopriamo un De Amicis che non si vergogna di confessare che nelle notti insonni, quando è perseguitato dai pensieri del passato e di quelli “del presente e dell’avvenire”, trova rifugio proprio pensando al suo cagnolino. Dice De Amicis, rivolgendosi al suo cane: “Nel pensiero di te trovo il rifugio, e tu mi pari la vista dagli spettri umani, e trattenendomi con la tua immagine, dimentico e mi racqueto”. Questa è una frase con la quale De Amicis sembra addirittura volersi collocare ben oltre quel fanatismo di cui a volte vengono tacciati i sostenitori dei diritti degli animali, rei di volere “più bene agli animali che agli uomini”.
C’è un altro passaggio che merita di essere sottolineato. Scrive De Amicis: “Io dimentico quello che gli ho tolto, quando penso di avergli fatto un beneficio dandogli ciò che gli ho dato. Povero Dick! No, io non ti benefico; non faccio che darti quello che ti vien di diritto. Io ti debbo bene l’alimento, poiché ti impedisco d’andartelo a cercare per il mondo, come fanno i tuoi fratelli senza padrone. Ti debbo bene delle cure e delle carezze, poiché t’ho chiuso in una prigione, e t’ho imposto un orario, una disciplina, un collare, una museruola, e mille soggezioni e riguardi che riducono la tua vita come quella d’un collegiale”
Ecco dunque che scopriamo una inaspettata sensibilità etologica. De Amicis comprende quali sono le reali esigenze del cane, e considera il cibo e le cure un indennizzo per tutto ciò di cui il cane è stato privato. E non è solo una sensibilità etologica. E’ una vera e propria empatia tra lo scrittore e il suo cane. Uno slancio che porta De Amicis a dire, rivolgendosi al suo cane. “Se sapessi quanto m’affatica il pensiero per misurare la distanza che corre fra di noi, e scoprire la tua riposta natura, e quella dei legami che ci congiungono e delle barriere che ci separano”. Ecco, qui non c’è trucco e non c’è inganno: lo scrittore guarda il cane e coglie la contiguità tra le loro vite.
Inaspettatamente, proprio in De Amicis, quello della linea da contrapporre alla linea Collodi, si infrange quel tabù di una cultura millenaria, stratificatasi ad opera del pensiero dominante della nostra storia filosofico - religiosa, che ha voluto costruire una barriera tra noi e gli altri animali.
Questa barriera, come tante altre che costruiamo nei confronti di chi ritieniamo “diversi”, è in realtà fragile. E difatti, ogni qualvolta si verifichi che i rapporti di forza si vengono a ribaltare, siamo subito pronti ad abbatterle, queste barriere. Faccio un esempio, prestando attenzione al cosiddetto fenomeno del dumping, che interessa tanto gli economisti dei paesi occidentali: quando si tratta di andare ad impiantare le nostre aziende nei paesi sottosviluppati, che offrono mano d’opera a prezzi ridicoli, lo si fa in nome dei principi del liberismo. E’ giusto andare dove il lavoro costa poco, perché le leggi del mercato ci spingono verso l’ottimizzazione del rapporto costi/benefici. Quando accade che “loro”, imparato il know how, e trovati i mezzi per avviare le loro imprese, mettono sul mercato prodotti che ci fanno concorrenza a prezzi più bassi, allora quelle leggi di mercato che prima andavano bene, non vanno bene più. Si comincia ad evidenziare il mancato rispetto degli standard relativi ai diritti dei lavoratori, i quali possono produrre quei beni a quei prezzi in quanto sottopagati e privi delle garanzie che abbiamo nei paesi avanzati, e quindi si comincia a parlare del dumping e della necessità di introdurre strumenti protezionistici, mediante dei dazi sull’importazione di quei prodotti. Il che significa alterare il libero mercato, e rinnegarne i principi. Perché questo accade? Perché succede che “noi” stiamo diventando “loro”, e quello che prima veniva professata come regola generale ora non va più bene, perché non va bene per “noi”.
Noi siamo i sostenitori di questa battaglia culturale, in difesa degli ultimi. Di coloro che oggi sono macellati nei campi di concentramento degli animali destinati ad uso allevamento o pelletteria, di coloro che sono utilizzati a milioni nei laboratori per test di nessuna rilevanza scientifica. E da oggi sappiamo che anche De Amicis avrebbe sostenuto questa battaglia.