sabato 23 gennaio 2010

Osservazioni sul Progetto Ombrina Mare

Lo sviluppo dei giacimenti di idrocarburi Ombrina Mare si inserisce in un quadro di programmazione della politica energetica italiana, che deve essere coerente con i principi della L. 239/04 (Legge Marzano), la quale si prefigge l’obiettivo della valorizzazione delle risorse nazionali di idrocarburi, mediante la prospezione e l’utilizzo con modalità compatibili con l’ambiente. Tra gli scopi della predetta legge vi è proprio il miglioramento della sostenibilità ambientale dell’energia, anche in termini di uso razionale delle risorse territoriali, di tutela della salute e di rispetto degli impegni assunti a livello internazionale, in particolare in termini di emissioni di gas a effetto serra e di incremento dell’uso delle fonti energetiche rinnovabili.
La salvaguardia ambientale è un criterio contenuto anche nella L. 9 del 9/1/91 (“Norme per l’attuazione del Nuovo Piano Energetico Nazionale”), e la recente Legge n. 99/09 (“Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”) stabilisce incentivi in materia di energie alternative.
I predetti principi di salvaguardia ambientale devono essere particolarmente osservati nelle zone costiere, le quali, oltre a costituire la parte dell’ambiente marino più direttamente influenzato dalle attività antropiche (pesca professionale e sportiva, stabilimenti balneari, scarichi a mare, ecc.), risultano anche le più ricche e diversificate dal punto di vista biologico, vegetale ed animale, tanto da essere poste al centro di diverse convenzioni internazionali in cui sono state delineate le linee di condotta per la tutela degli ecosistemi (Convenzioni di Barcellona del 1976; Atene del 1980; Montego Bay del 1982; Rio de Janeiro del 1992).
Tali principi non appaiono rispettati in relazione al progetto Ombrina Mare.
Come descritto nel “Quadro di riferimento progettuale” (capitolo 2 del SIA), il piano di sviluppo prevede la coltivazione dell’olio (e del gas ad esso associato) presente nei carbonati terziari e del gas biogenico presente nei sovrastanti livelli del Pliocene, mediante pozzi perforati a partire dall’ubicazione del pozzo Ombrina Mare 2dir, in corrispondenza del quale si dovrebbe installare la piattaforma di produzione denominata “Ombrina Mare A”.
L’area interessata dal progetto ricade nelle acque del mare territoriale ove vi sono aree naturali protette e siti della rete Natura 2000, regolamentati dalle Direttive Comunitarie 92/43/CEE (Direttiva “Habitat”) e 79/409/CEE (Direttiva “Uccelli”). Tra questi vi sono due Siti di Importanza Comunitaria, il “Fosso delle Farfalle” (SIC IT7140106) e la “Lecceta litoranea di Torino di Sangro e foce del fiume Sangro” (SIC IT7140107).
Per quanto riguarda la zona costiera prospiciente gli impianti, ci sono numerose aree sottoposte a tutela, tra cui: i territori costieri per una fascia di trecento metri dalla linea di battigia (art. 142 D. Lgs. 42/04 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”; i fiumi e i corsi d’acqua per una fascia di centocinquanta metri da entrambe le sponde (art. 142 cit.); le aree sottoposte a vincolo paesaggistico dichiarate di notevole interesse pubblico (art. 136 D. Lgs. 42/04). In particolare, con D.M. 21/6/85 è stata vincolata l’area di costa (codice del vincolo 130102) denominata “Fascia costiera che va da Francavilla al Mare fino a San Salvo con colline degradanti sul mare”.
Nell’area interessata dal progetto insistono due aree che sono state destinate alla protezione ed allo sviluppo delle risorse acquatiche ed al monitoraggio delle risorse alieutiche, una prospiciente il Comune di Ortona e San Vito Chetino (cod. progetto 02/BA/03/AB – Doc.U.P. Pescara 2000-2006 – Misura 3.1) ed una prospiciente il Comune di Rocca San Giovanni (cod. progetto 02/BA/04/AB – Doc.U.P. Pescara 2000-2006 – Misura 3.1). Nelle predette aree sono state realizzate barriere artificiali su fondali marini mobili (da non confondere con gli sbarramenti frangiflutti per combattere l’erosione) per diversificare l’habitat originario e stimolare effetti positivi a livello biologico ed ecologico, ed in effetti, nel terzo anno di monitoraggio (2008) l’ARTA Abruzzo ha riscontrato buone condizioni delle qualità biologica, del benthos, dei sedimenti e del biota delle predette aree marine. Nelle immediate vicinanze, lungo la costa teatina prospiciente i Comuni di Casalbordino e di Vasto, è stata creata un’area destinata allo sviluppo delle risorse acquatiche delle dimensioni di 5000 m di lunghezza e 1000 m di larghezza, per un totale di 500Ha, compresa tra la batimetria di –15,00 e –22,00 metri, con una serie di strutture idonee a favorire il ripopolamento e l’attecchimento di biocenosi, tuttora in fase di monitoraggio da parte dell’ARTA Abruzzo.
I predetti progetti hanno previsto finanziamenti comunitari, secondo le modalità definite dai regolamenti CE 1260/99, 2792/99 e 1263/99, trasfusi nel Regolamenti del Consiglio n. 1198/06 (“Regolamento del Consiglio relativo al Fondo Europeo per la Pesca”), ed il tutto verrà vanificato dall’attuazione del progetto “Ombrina Mare”.
Innanzi tutto vi saranno perturbazioni dovute alla stessa presenza fisica delle strutture, che si rifletteranno su tutti i livelli biotici, quali plancton, benthon, necton e avifauna, in quanto tali strutture rappresentano elementi di anomalia che creano condizioni di habitat differenti rispetto a quelle originarie, con conseguente sottrazione di habitat alle specie bentoniche.
Anche la generazione di rumore dovuto alla presenza delle strutture si rifletterà sulle specie ittiche. Come noto, l’elevata capacità di propagazione del rumore in mare (cinque volte superiore rispetto alla propagazione in aria) ha determinato un notevole sviluppo delle capacità uditive di molte specie, in particolare dei cetacei, che sono stati oggetto di numerosi avvistamenti nelle aree interessate dal progetto (così come le tartarughe comuni caretta caretta, incluse nella lista rossa dei vertebrati italiani considerati come “specie in pericolo in modo critico”). Dunque, anche i rumori a bassa frequenza e di sensibile entità possono determinare un allontanamento dell’ittiofauna ed un’interferenza con le normali funzioni fisiologiche e comportamentali di alcune specie, come evidenziato nello studio di impatto ambientale.
Lo stesso è a dirsi per quanto riguarda l’aumento dell’illuminazione notturna. Quest’ultima determinerà un incremento dell’attività fotosintetica del fitoplancton negli strati d’acqua più superficiali, e ciò può modificare i bioritmi degli organismi zooplanctonici, presenti normalmente nelle zone buie, potendo diventare – nel lungo periodo – un fattore di stress per gli organismi e causare un decremento della produzione biologica del plancton ed allontanare alcune specie ittiche. Peraltro anche l’avifauna può essere influenzata dall’illuminazione notturna, dato che le migrazioni di uccelli si svolgono – come noto – secondo precise vie aeree, che potrebbero subire deviazioni per effetto delle fonti luminose.
Ma per stimare le possibili perturbazioni dell’intervento progettato sull’ambiente marino, si devono valutare, oltre alla presenza delle strutture e delle navi che immetteranno in mare reflui civili, i seguenti ulteriori fattori: scarico in mare; movimentazione di sedimenti; rilascio di metalli in mare.
Per quanto riguarda gli scarichi in mare, durante le operazioni in piattaforma verrà certamente prodotta una certa quantità di scarichi liquidi e solidi (acque di produzione e di sentina; drenaggi; fanghi e detriti di perforazione) i quali, se non correttamente trattati, potrebbero alterare – come segnalato nello studio di impatto ambientale – la qualità delle acque circostanti l’area delle operazioni.
Gli scarichi di reflui civili provenienti dalla piattaforma e dai mezzi navali determinerà, inoltre, una variazione del grado di trofia delle acque, che può determinare un’eccessiva proliferazione di microalghe, responsabili del fenomeno dell’eutrofizzazione delle acque.
Per quanto riguarda la movimentazione dei sedimenti, lo stesso studio di impatto ambientale segnala che nella fase di installazione e rimozione della piattaforma e del jack-up di perforazione, così come nell’installazione della boa di ancoraggio, la inevitabile mobilitazione di materiale fine dal fondale e la conseguente dispersione in acqua causata dalla penetrazione dei pali di sostegno rappresentano le principali cause di aumento della torpidità delle acque che, se protratto per lungo tempo, può portare ad una diminuzione del quantitativo di ossigeno in acqua, in quanto riduce la capacità di penetrazione della luce e la conseguente attività di fotosintesi del fitoplancton.
Per quanto riguarda il rilascio di metalli in mare, questo riguarda le tracce di piombo presente nei carburanti dei mezzi impiegati nelle varie fasi progettuali ed il rilascio di zinco, alluminio e indio dai sistemi di protezione catodica durante le fasi di perforazione e produzione. Anche il progressivo assottigliamento dello strato metallico per corrosione può causare il rilascio di sostanze in mare. Tali metalli possono accumularsi anche nei sedimenti marini.
Inoltre le perturbazioni legate all’immissione di metalli in mare può estendersi, secondo la catena alimentare, dai più piccoli organismi marini fino ai principali predatori, compresi gli uccelli ittiofagi. Uno dei principali effetti riconducibili al rilascio di metalli è difatti il fenomeno del bioaccumulo, cioè la capacità degli organismi di concentrare sostanze chimiche inquinanti nei tessuti, con conseguenti patologie, tra cui le alterazioni a carico del patrimonio genetico.
Tutti i predetti effetti sono stati contemplati nello studio di impatto ambientale, ma sono stati ingiustamente considerati di entità minima o trascurabile.
A tutto quanto sopra detto, occorre aggiungere che, per quanto riguarda il trattamento, lo stoccaggio ed il trasporto dell’olio, sono previste due alternative progettuali: o un serbatoio galleggiante (FPSO) con capacità di stoccaggio, che sarebbe molto impattante dal punto di vista ambientale, o l’invio dell’olio a terra al Centro Olio di Miglianico. Qui l’olio dovrebbe essere trattato (desolforizzazione) e inviato nell’area di stoccaggio già esistente (a 5 km ad ovest di Ortona), per poi prendere la strada del molo di carico nel porto di Ortona ed essere scaricato su tankers, mentre il gas verrebbe utilizzato per la generazione di energia presso il Centro Olio.
Bisogna però sottolineare che il Centro Olio, il cui progetto è stato bloccato, è stato dimensionato sulla capacità produttiva dei pozzi del campo di Miglianico, e non sull’ipotesi di trattare anche l’olio di Ombrina Mare, e la Sealines dovrebbe inoltre raggiungere la considerevole lunghezza di 25 km, attraversando una zona dove si pratica agricoltura in forma intensiva (vigneti, uliveti, frutteti), con conseguenti danni incalcolabili per l’agricoltura, oltre che per il turismo e la stessa immagine dell’Abruzzo, finora considerata il cuore verde dell’Europa.

L'avvelenamento di animali: aspetti penali e civili (Workshop Progetto Life Natura Antidoto, Isola del Gran Sasso, 11 dicembre 2009)

Come noto, ogni anno muoiono migliaia di animali, selvatici e domestici, a casa di avvelenamento. Nei territori non urbanizzati sono spesso i bracconieri a disseminare esche avvelenate, al fine di eliminare “potenziali concorrenti”(lupi, volpi, ecc.), oppure i contadini a ricorrere a tale pratica per uccidere animali ritenuti dannosi per l’agricoltura, mentre nei centri urbanizzati questo fenomeno, in allarmante espansione, è finalizzato a chiudere beghe condominiali o tra vicini confinanti, causate ad esempio dal disturbo provocato dall’abbaiare di cani, oppure trova la sua radice in atti di teppismo o bullismo mirati a porre rimedio, ad esempio, alla presenza di colonie feline ritenute fastidiose.
Il mio intervento è finalizzato ad esaminare gli aspetti legali di tale fenomeno, sotto il profilo delle responsabilità penali e civili di chi pone in essere tali condotte, e della conseguente risposta sanzionatoria dell’ordinamento.
In rilievo vengono, innanzi tutto, gli articoli 544-bis e 544-ter del Codice penale, introdotti dalla L. 189/04, che puniscono, rispettivamente, l’uccisione ed il maltrattamento di animali.
L’art. 544-bis recita: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi”, mentre l’art. 544-ter, in tema di maltrattamento, prevede che “chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie” è punito con la reclusione da tre mesi a un anno o con la multa da 3.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi (come avviene per gli avvelenamenti non letali). L’ultimo comma di tale articolo prevede che la pena è aumentata della metà se dai predetti fatti deriva la morte dell'animale.
L’introduzione dei predetti articoli (544 - bis e 544 - ter) nel codice penale è stata salutata, e non a torto, come una svolta rispetto al previgente impianto normativo, che faceva rientrare qualsiasi condotta in danno degli animali nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 727 c.p., il quale puniva tali condotte con una modesta ammenda, dando all’imputato la facoltà di scegliere se accedere all’oblazione o addirittura tentare di arrivare alla prescrizione del procedimento, molto breve e dunque facilmente raggiungibile. I casi di condanna, pertanto, sono stati davvero pochi, e quasi sempre determinati - per quanto riguarda gli avvelenamenti - dalla mancata opposizione al decreto penale di condanna. Quest’ultimo strumento giuridico, pur avendo garantito una punizione dei colpevoli, non ha mai avuto una funzione realmente repressiva delle predette condotte, a causa della modestissima entità delle pene pecuniarie comminate.
Sempre nel codice penale vi sono altri articoli che vengono in rilievo ai fini della nostra disamina, quali l’art. 638 e 674.
L’art. 638, sotto la rubrica “Uccisione o danneggiamento di animali altrui”, sancisce che chiunque, senza necessità, uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri (ed è questo l’elemento caratterizzante della previsione normativa), è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, ed a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 309. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni, e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria.
L’art. 674, invece, sotto la rubrica “Getto pericoloso di cose”, stabilisce che chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a euro 206.
Ed invero, lasciare esche o bocconi avvelenati costituisce un pericolo non solo per gli animali, ma anche, per esempio, per i bambini che possono mettersi le mani in bocca dopo aver toccato tali prodotti.
E ciò a sottacere il fatto che le esche avvelenate sono pericolose anche per l’ambiente, visto che le sostanze velenose, come ad esempio la stricnina, rimangono a lungo nei tessuti delle vittime, potendo determinare anche l’inquinamento del suolo e falde acquifere.
Per questo può venire in rilievo, oltre a specifiche disposizioni del Testo Unico Ambientale, che non è possibile approfondire in questa sede, anche l’art. 440 del codice penale, il quale punisce con la reclusione da tre a dieci anni “chiunque corrompe o adultera acque o sostanze destinate all'alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, rendendole pericolose alla salute pubblica”.
Per tornare allo specifico argomento dell’avvelenamento di animali, vengono in rilievo, invece, ulteriori norme, non codicistiche, date dalla L.157/92 (“Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”, in gergo conosciuta come “Legge sulla caccia”), la quale, all’articolo 21, lettera u), stabilisce che è vietato a chiunque “usare esche o bocconi avvelenati, vischio o altre sostanze adesive, trappole, reti, tagliole, lacci, archetti o congegni similari”e dal Testo Unico delle Leggi Sanitarie (Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265), che all’art. 146 proibisce e punisce la distribuzione di sostanze velenose.
Sull’argomento è intervenuto recentemente il Ministero della Salute emanando l’Ordinanza contingibile e urgente concernente norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o bocconi avvelenati (Gazzetta Ufficiale n.13/09), con il precipuo scopo di combattere “il dilagare del fenomeno di uccisione di animali mediante l'utilizzo di esche o bocconi avvelenati sia in ambito urbano, che extraurbano nonché le sempre più frequenti morti tra la fauna selvatica per ingestione di sostanze tossiche abbandonate volontariamente nell'ambiente, con conseguenti rilevanti danni al patrimonio faunistico selvatico e in particolare alle specie in via di estinzione”.
All’art. 1 della predetta ordinanza, viene stabilito che “è vietato a chiunque utilizzare in modo improprio, preparare, miscelare e abbandonare esche e bocconi avvelenati o contenenti sostanze tossiche o nocive, compresi vetri, plastiche e metalli; è vietato, altresì, la detenzione, l'utilizzo e l'abbandono di qualsiasi alimento preparato in maniera tale da poter causare intossicazioni o lesioni al soggetto che lo ingerisce”. E’ impostante sottolineare, dunque, che il provvedimento ministeriale si riferisce non solo alle esche o ai cosiddetti bocconi avvelenati, ma anche alle preparazioni contenenti sostanze velenose o nocive, compresi vetri, plastiche e metalli.
L’ordinanza stabilisce che il proprietario o il responsabile dell’animale deceduto a causa di esche o bocconi avvelenati sia tenuto a segnalare l’accadimento alle autorità competenti. Tale disposizione è finalizzata, con ogni evidenza, a rendere censibile ogni caso di avvelenamento, al fine di sopperire all’attuale carenza di dati, che rende difficile persino effettuare delle statistiche sulla reale portata del fenomeno.
Parimenti è tenuto alla segnalazione il medico veterinario che, sulla base di una sintomatologia conclamata, emette una diagnosi di sospetto avvelenamento oppure viene comunque a conoscenza di un caso di avvelenamento di un esemplare di specie animale domestica o selvatica. In questo caso, il medico veterinario deve darne immediata comunicazione al sindaco e al Servizio veterinario della Azienda sanitaria locale territorialmente competente.
In caso di decesso dell'animale, il medico veterinario deve inoltre inviare le spoglie e ogni altro campione utile all'identificazione del veleno o della sostanza che ne ha provocato la morte all'Istituto zooprofilattico sperimentale competente per territorio, accompagnati da referto anamnestico, al fine di indirizzare la ricerca analitica.
Gli Istituti zooprofilattici sperimentali, a loro volta, devono sottoporre ad autopsia l'animale ed effettuare le opportune analisi sui campioni pervenuti o prelevati in sede autoptica e comunicarne gli esiti al medico veterinario che ha inviato i campioni, al Servizio veterinario dell'Azienda sanitaria locale territorialmente competente e, qualora positivo, all'Autorità giudiziaria.
Anche il sindaco, a seguito di segnalazione di avvelenamento, deve dare immediate disposizioni per l'apertura di una indagine, da effettuare in collaborazione con le altre autorità competenti, e nel contempo deve attivare tutte le iniziative necessarie alla bonifica dell'area interessata, che nel frattempo deve essere segnalata con appositi cartelli. Una cosa simile dovrebbe essere prevista per interdire l’attività venatoria nelle zone colpite da fenomeni di avvelenamento.
L’ordinanza ministeriale in parola prevede, inoltre, che presso ciascuna Prefettura debba essere istituito un «Tavolo di coordinamento» per la gestione degli interventi da effettuare e per il monitoraggio del fenomeno, costituito da un rappresentante della provincia, dai sindaci delle aree interessate e da rappresentanti dei Servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali, del Corpo forestale dello Stato, degli Istituti zooprofilattici sperimentali competenti per territorio, delle Guardie zoofile e delle Forze di polizia locali.
L’ordinanza non indica quali debbano essere i compiti specifici del predetto “Tavolo di Coordinamento”. Tra questi certamente si deve ricomprendere il mappaggio delle zone a rischio, in modo da studiare accuratamente il fenomeno per individuare responsabilità e possibili interventi.
Un altro compito del predetto Tavolo deve essere quello di coordinare le attività di informazione dei cittadini, a mezzo degli opportuni mezzi di comunicazione (internet, televisione, radio e stampa) sui pericoli e sui comportamenti da tenere, anche in ordine alla presentazione della denuncia. Si può pensare anche a percorsi didattici nelle scuole, anche attraverso di Centri di Educazione Ambientale, per favorire rapporti rispettosi nei confronti degli animali.
I percorsi formativi sono essenziali al fine di combattere il fenomeno degli avvelenamenti, e ciò vale anche per i soggetti deputati alla vigilanza (il Corpo Forestale dello Stato, le polizie municipali e provinciali, la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza), che devono essere adeguatamente preparati, affinchè si possa giungere alla immediata eliminazione del pericolo, ed eventualmente alla punizione dei colpevoli.
La difficoltà di cogliere in flagrante l’autore dell’avvelenamento è un dato di fatto, ed è per questo che risultano importanti le statistiche, i censimenti e le mappature di cui si è parlato, perché nelle zone più colpite occorre evidentemente intensificare le indagini.
Ma poi occorre professionalità, lo si ribadisce, e non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche da parte della magistratura inquirente. La L. 189/04 prevede, ad esempio, che i pubblici ministeri possano delegare dei compiti in ordine alla tutela degli animali d’affezione anche alle guardie zoofile, ma sono certo che la maggior parte dei pubblici ministeri non ha mai neppure sentito parlare di tali guardie.
E, dunque, quando l’istituto zooprofilattico avverte la magistratura a seguito di un caso di avvelenamento accertato, occorre disporre immediatamente delle perizie, eventualmente anche a mezzo di incidenti probatori, affinchè gli esami effettuati abbiano valenza probatoria, e consentano di punire il colpevole, se questo è stato individuato.
Per questo io penso che vadano organizzati incontri di studio, rivolti agli operatori del diritto, affinchè si prenda conoscenza dell’importanza dell’applicazione delle normative sopra citate, che spesso vengono considerate di scarsissima importanza.
Gli autori degli avvelenamenti, oltre a rispondere sul piano penale, devono risarcire i danni, ed è proprio al risarcimento del danno che è finalizzata la costituzione di parte civile nel processo penale.
Ad avere il diritto di costituirsi parte civile sono non solo i proprietari degli animali avvelenati e le associazioni protezioniste, ma anche soggetti pubblici (Stato, Regione, Province, Comuni, Enti autonomi, Parchi Nazionali ecc.), in quanto, per i motivi che si sono sopra esposti, dietro l’avvelenamento di animali vi è un “danno ambientale”, e cioè l’offesa ai valori naturali e culturali che sono, ovviamente di pubblico interesse.